
Denk ich an Deutschland in der Nacht, ma anche in pieno giorno, con l’aria politica che tira, mi viene una di quelle angosce. Un anno fa scrivevo questo, e adesso nell’Est si aprono le urne, vasi pandorini, da cui usciranno percentuali da tregenda. In Turingia di sicuro, ma anche altrove, e il tema ovviamente sarà quali maggioranze, su quali compromessi agglutinanti, a spese di chi. Il muro tagliafuoco bipenne della CDU sta per crollare almeno a sinistra, chiamiamola sinistra, nei confronti del partito personale di Wagenknecht. Partiti del semaforo di governo non pervenuti, mentre le chiacchiere antimigranti sono ormai mainstream. Dopo sedici anni di Merkel, autentico lusso di stagnazione politica mentre il mercato – e il soft power teutonico – faceva il suo lavoro, adesso molti nodi verranno al pettine e il backlash culturale potrebbe essere stordente. Defletto, solo in parte, con qualche riflessione sull’ultranovantenne Edgar Reitz e gli albori del suo magnifico, colossale, Heimat audiovisivo.
La visione di Filmstunde_23 alla Berlinale m’ha fatto riscoprire la produzione reitziana degli anni Sessanta e Settanta, antecedente alla saga eterna dell’Hunsrück spezzettata in documentari, stagioni, film e dietro le quinte. Alla luce dei toni völkisch sempre più assordanti nella retorica politica tedesca fa un po’ impressione parlar bene di un colosso cinematografico (anche se ufficialmente di produzione televisiva) come Heimat, i cui episodi presentavano il titolo su un masso in aperta campagna spazzato da germanico vento. Questo è forse il motivo per cui Reitz, un tesoro nazionale come si direbbe Oltremanica, oggi è meno celebrato di quanto meriterebbe. Troppo tedesco? Non abbastanza woke? Ovviamente pinzillacchere, come applicare il filtro post-coloniale a opere medievali, ma è indubbio che Reitz, coideatore del celebre Manifesto di Oberhausen, abbia sempre lisciato il pelo all’anima tedesca. Coi modi critici e inizialmente sessantottini di un intellettuale preparato, ma pur sempre dell’anima tedesca si tratta, riscoperta e adorata in aperta campagna.
I primi episodi di Heimat, in un bianco e nero abbacinante che si tinge pian piano di colore, hanno un che di ancestrale. Lontanissimo da Syberberg così come dalle azzurre luci boreali di Riefenstahl, Reitz è forse il più classico tra i cineasti del Nuovo cinema tedesco. Gli manca lo slancio decostruttivo e godardiano dell’amico Kluge, al contrario di Herzog è centripeto, muove sempre verso il cuore della Germania, e i punti di contatto con la modernità parossistica di Fassbinder sono pari a zero. Solo Schlöndorff gli assomigliava quanto a spunti letterari alti e messinscena a modino. Ma nessuno ricorda, di Reitz, quel Cardillac (1969) tratto da E.T.A. Hoffmann. Edgar Reitz è Heimat, un colosso ultradecennale che ha cancellato e riscritto il concetto stesso di Heimatfilm, sottogenere Biedermeier anni Cinquanta che gemmò, in America, Tutti insieme appassionatamente. Die Trapp-Familie (1956) di Wolfgang Liebeineiner, tratto dall’omonimo memoir di Maria Augusta Trapp, è la quintessenza di quel Papas Kino (cinéma de papa, e pure un po’ nazi) contro il quale si scagliarono i firmatari di Oberhausen.
Al pari di Cardillac, anche Die Reise nach Wien (1973) è un film poco noto, eppure è il prologo vero della manovra di riconquista dell’Hunsrück, destinata a valere per la Germania tutta. Tratto dai ricordi della madre del regista, Il viaggio a Vienna parla di uno scanzonato… viaggio a Vienna compiuto da due donne, Toni (Elke Sommer) e Marga (Hannelore Elsner), mentre i mariti sono al fronte. Per quanto sia choccante dirlo, il film è una commedia nazista, nel senso che sia le protagoniste, sia i personaggi in cui s’imbattono, sono perfettamente in linea con la quotidianità del Reich. La vivono in un villaggio (Simmern, che esiste sul serio) dove le autorità militari hanno la faccia da schiaffi di Mario Adorf, e malgrado ascoltino volentieri per radio le esortazioni di Goebbels, non esitano a compiere atti illegali come la macellazione di un maiale senza permesso – inconcepibile ai tempi dello sforzo bellico. Ed è proprio grazie a un gruzzolo trovato per caso che le due amiche improvvisano il viaggio a Vienna, cercando di fare affari inevitabilmente fallimentari. Commedia scritta – ma non si sente – insieme a Kluge, Die Reise nach Wien ha il problema non da poco di essere piatta come la Landa di Luneburgo, zero risate se non a denti stretti e pensando all’oggetto misterioso che si sta guardando. Il film non banalizza né relativizza il Terzo Reich, ma cerca di indagarne la dimensione più periferica facendo leva sulle due inarrestabili protagoniste, circondate da uno stuolo di maschi decerebrati. Il finale, piuttosto klughiano, ha luogo dopo la capitolazione: un carrarmato alleato arriva nelle stradine del villaggio e resta bloccato in una manovra impossibile, sul cui fermo immagine scorrono i titoli di coda. A fare di Die Reise nach Wien il prologo dell’Heimat che verrà è sia l’ambientazione nell’Hunsrück, sia il cognome di Toni, Simon. Doccia fredda per chi si aspetta(va) un film hollywoodiano che mette in riga i buoni e i cattivi.
Reitz avrebbe voluto produrre subito dopo Der Schneider von Ulm, ma ci riuscì solo nel 1978, registrando peraltro un flop clamoroso. È la storia di Albrecht Ludwig Berblinger (Tilo Prückner), sartino con la fissa delle invenzioni a partire da quella del volo, che gli riuscì solo in parte. Celebre, in senso negativo, la sua fallita dimostrazione del 1811 davanti al re e altri dignitari, quando munito delle sue ali meccaniche piombò nel Danubio invece di volare sull’altra sponda. Il sarto di Ulm è a oggi l’ultimo progetto filmico narrativo di Reitz pre-Heimat e non-Heimat. Un film in costume costosissimo, allestito come un compitino e mal girato, che agli occhi degli spettatori degli anni Settanta dovette subire il confronto umiliante con Barry Lyndon. La metafora tra i primi tentativi rivoluzionari di ottenere la democrazia e il volo di Berblinger è telefonatissima, oltre che stilisticamente gelida. Ma prima del Sarto, prodotto a spizzichi e mozzichi tra il 1976 e il 1977, c’è il gioiello vero della filmografia di Edgar Reitz, Stunde Null.
L’ora zero è quella della Germania rosselliniana, anzi, ancora prima: sono i mesi dopo la capitolazione in cui il territorio tedesco, occupato dagli Alleati, era formalmente acefalo. Come scrive giustamente Matteo Galli nel suo Castorino su Reitz uscito nel 2005, tuttora la fonte italiana più autorevole sul regista, con “Ora zero, girato in sei settimane nell’estate del 1976, Reitz si avvicina ulteriormente al modello narrativo, al progetto estetico e all’assetto produttivo che otto anni più tardi darà luogo alla prima parte di Heimat”. A cominciare dalla fotografia in bianco e nero mozzafiato di Gernot Roll, reduce da una batteria di Tatort eppure molto più efficace di Robby Müller, ingaggiato per i colori sgargianti del Viaggio a Vienna. La sceneggiatura è a otto mani: Reitz, Karsten Witte, Petra Kiener e soprattutto Peter Steinbach, destinato a scrivere anche il frammento reitziano di Deutschland im Herbst (1978) per poi passare alla prima infornata di Heimat. La trama di Stunde Null sembra vergata su un tovagliolo: siamo in un paesino (Möckern) lungo la tratta ferroviaria che porta a Lipsia nell’estate del 1945, e gli abitanti attendono l’arrivo delle truppe sovietiche. Per due terzi del film non succede, sul piano diegetico, praticamente Null-a.
Ma questo niente è un nido pieno di roba buona. Innanzitutto, facciamo la conoscenza delle anime, stanziali o di passaggio, di questo non-luogo agglomeratosi attorno a un passaggio livello e alla casa cantoniera. C’è l’adolescente Joschi (Kai Taschner) che gira una giacca di pelle fregata agli americani e amoreggia con Isa (Annette Jünger), sfollata dalla Baviera. I due siedono e passeggiano lungo i binari come se fossero una cavedagna, un sentiero infinito nel paesaggio. Di treni neanche l’ombra. C’è il piccolo Torsten (Torsten Henties) sempre sorridente e in bicicletta, che sembra aggirarsi per il film come una macchina da presa vivente. C’è il vecchio saggio, c’è la vedova che nega il passato nazi del marito, c’è il voltagabbana di turno pronto a sventolare falci e martelli e c’è il polacco Motek che arriva trainando una giostra. La monterà nel villaggio, portando il circo nel nulla e facendo orbitare nella notte tutti i volti che abbiamo imparato a conoscere. E poi ci sono i soldati. I russi, che arrivano come unni, rubano, devastano, approfittano di Isa – l’unico momento oggettivamente drammatico del film, seppur costruito su ellissi e un unico, innocuo colpo di pistola. Nel finale, Joschi e Isa fuggono tra i boschi fino ad avvistare una jeep. Ma neanche gli yankee portano l’idillio: la ragazza resta a bordo e lui, col pretesto della giacca rubata, viene mollato tra la polvere della Germania in macerie.
Quasi una prova generale sia del frammento doganale di Deutschland im Herbst, sia dell’impatto visivo di Heimat (1984) prima del sesto episodio, Hermännchen, dove il colore prende il sopravvento, Stunde Null dimostra tutti i punti di forza di Edgar Reitz: la vicinanza empatica, la creazione di un microverso che va ampliandosi, la pazienza di un racconto lungo, potenzialmente infinito. Una serietà mai azzimata, distante anni luce dall’ideologismo di Kluge. Il tutto accompagnato e potenziato da movimenti di macchina maestosi e sempre diegetici, che sfruttano al meglio oggetti come il passaggio a livello, la tenda da circo e la giostra, oltre che da dialoghi asciutti e incisivi. Rispetto all’affresco claudicante del Sarto di Ulm, Stunde Null è microstoria à la Carlo Ginzburg (del resto siamo negli anni Settanta), avvolgente, immersiva, ipnotica. Pur nei limiti della finzione – le riprese, per dirne una, furono effettuate in Germania Ovest, a pochi chilometri dal confine con la DDR – questo film di Reitz, pressoché ignorato dal canone moderno, è un distillato di Heimat prima di Heimat, e molto semplicemente una visione di rara bellezza. Rara anche nella sua prospettiva periferica, tipica di Reitz, che sposta una tramina da Trümmerfilm lontano dalla città, calando il tutto in una dimensione paesana, smarrita, quasi primigenia. La Germania che non c’era (più, o ancora).
Dopo il patapùnfete del Sarto di Ulm, Reitz prese la rincorsa col documentario Geschichten aus den Hunsrückdörfern (1980) e da quel momento in poi piantò la tenda a Schabbach, salvo occasionali digressioni documentaristiche come Die Nacht der Regisseure, bizzarro tentativo in video di fare il punto sul cinema tedesco. Die andere Heimat (2012), prequel heimatiano in bianco & nero & Sehnsucht, è finora l’ultimo lavoro vero e proprio del regista di Morbach, vista la tenue precarietà di Filmstunde_23. Su Heimat si potrebbero scrivere enciclopedie, ma la cosa migliore resta sempre vederlo, rivederlo, e sperare che la smettano, quelli là, di scambiare un termine tedesco bello e intraducibile per una clava retrograda che nulla ha a che vedere con patrie, matrie e innocui macigni nell’erba.


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