et consumimur igni

Due archivi che si rispecchiano come metà di un palindromo: quello pubblico della storia del cinema e quello privato, in espansione come l’universo, della famiglia Ghezzi, alimentato dall’uomo con la videocamera da presa. È da questi due magnifici maelstrom che nasce nel 2022, dopo quattro anni di lavorazione (e due di montaggio), un film con un titolo krausiano attuale come non mai: Gli ultimi giorni dell’umanità. Oggi peraltro, meglio ancora che nel 2022, sappiamo quanto siano contate le ore dell’umanità intesa come tribù organica, comunità di cervelli analogici.

Ho scoperto Fuori orario leggendo Emanuela Martini su Film Tv a partire dal 1993. Le notti selvagge di Rai3 hanno segnato la mia tarda adolescenza più delle bravate in giro per Bologna. E quando la realtà in carne e ossa non poteva aspettare, mi affidavo con le dita incrociate al timer del videoregistratore, puntandolo quei due minuti prima dell’una e dieci nella speranza che il programma non partisse troppo tardi e il film, i film, ma soprattutto l’intro ghezziana, cioè il nocciolo di Fuori orario, finissero magneticamente impressi nella cassetta da 240 minuti o in quel che ne restava. Molto spesso, anche nei giorni feriali, quando magari l’indomani mi aspettava una verifica sui banchi del liceo, restavo alzato col telecomando in mano per premere il pulsante rosso appena finivano i trailer e partiva il tuffo con Patti Smith. Inconcepibile che abbia lasciato passare quasi tre anni prima di vedere questo film di enrico ghezzi e alessandro gagliardo.

Di Ghezzi regista nel senso classico del termine conservo ancora, vhs digitalizzata, l’episodio Gelosi e tranquilli (1988) del film collettaneo Provvisorio quasi d’amore. Quando lo vidi per la prima volta, ovviamente passato da Fuori orario, rimasi colpito da un’improvvisa ripresa in elicottero più che dai morettismi nel mettere in scena il rapporto a due. L’obiettivo si alza dal Circo massimo ballonzolando intorno al volto di Simona Bonaiuto, mentre la colonna sonora passa da Out of Time dei Rolling Stones a Isabella Rossellini che canta Blue Velvet… in Blue Velvet (1986). In poco meno di venti minuti, l’energia del pastiche, del détournement e dell’amore puro per l’atto di vedere generano un’estasi destinata a sfuggire agli occhi (ciechi) di chi nutre una passione solo tiepida, schematica per il cinema.

I quasi duecento minuti degli Ultimi giorni dell’umanità puntano all’estasi herzoghiana dell’intagliatore Steiner e la raggiungono in più d’una occasione, anche se qualsiasi visione, e qualsiasi occhio, racconterebbe una storia diversa su questo magma di immagini in movimento e suoni persistenti. Il punto di riferimento era, e resta, Verifica incerta (1965) di Grifi e Baruchello, con la sua paratassi di frammenti di pellicola “piratati”, amorevolmente espropriati e rimescolati. E dalla Anna di Grifi intesa come musa si arriva ad Aura Ghezzi, una delle figlie di Enrico, protagonista assoluta delle poche riprese effettuate espressamente per Gli ultimi giorni, inquadrata come un oracolo bergmaniano, che quando parla cita Kafka. Il desiderio di diventare pellerossa. Gli spettatori impietriscono.

Cosa c’è in questo acquario di quello che manca, come recitano le prime parole di enrico ghezzi dopo alcuni minuti di film, tanto nero con vocalizzi, quando appare un paesaggio marino brumoso, giallino, solcato da un vascelletto degno di Marco Ferreri? Ci sono fiere e fuorilegge, King Kong e Matango, fuoco e lava, videocassette in ufficio e cianfrusaglie casalinghe. C’è, tra le prime immagini, il buco della serratura in cui la videocamera anni Novanta di Ghezzi scova il volto della figlia appena chiusasi in bagno per non farsi inquadrare. Un primo piano zoomato, piratato, nell’occhiello sfumato della serratura, che tornerà a chiudere il lunghissimo viaggio nell’immaginario del suo autore-ispiratore.

Tra i gesti ghezziani che mi sono rimasti più impressi c’è quello dell’accensione astratta di un fiammifero. Gli ultimi giorni dell’umanità funziona davvero come una catena di scintille, un innesco che oscilla tra il placido, l’ipnotico e il magmatico. Durante la prima ora, interi minuti sono sovraimpressi a un’eruzione dell’Etna, creando un senso di Big Bang che ricorda la full immersion nella detonazione dell’atomica, Part 8 di Twin Peaks – The Return. Di questa incandescenza si nutre tutto il film, sia che mostri il rogo delle pellicole egiziane a Torino nel 2002, una valanga degna di Fanck o Herzog o un satellite orbitante inseguito manualmente dentro e fuori dall’inquadratura per quasi dieci minuti. Un’altra lunga sequenza presa da un’agenzia spaziale: degli astronauti giocano con una bolla d’acqua in sospensione. Decenni fa, uno dei formati di Fuori orario s’intitolava Eveline e mostrava found footage di questo tipo, NASA senza commento, sport e conflitti, l’indifferenza della natura captata da un occhio giornalistico. Tutto questo, insieme a Paradžanov e Wakamatsu, Iosseliani e Peckinpah (il Billy the Kid di Dylan), home movies su home movies, improvvisazioni con Marco Melani, un corto comico-trucido dei Lumière, Carmelo Bene macchina attoriale, tutto questo s’inserisce nell’ordito degli Ultimi giorni.

Eppure, sebbene ci siano tutte le magnifiche ossessioni di enrico ghezzi, questo film non è né un testamento, né un best of, né tanto meno un montaggione autocelebrativo e autosufficiente. L’acquario di quello che manca non può avere una capienza finita. Il desiderio di vedere non può placarsi mai. Nel suo alternare “cinema di durata” e montaggio a scheggia, il film dichiara un metodo e ci chiede, tra le righe, di adottarlo e svilupparlo con nuove mutazioni. A volte, più che giustapporre, arriva a un plateau. La prima sequenza lunga è tratta da X (1963) di Corman, con Ray Milland, in assoluto l’attore più presente in queste tre ore e un quarto. Anche Jean-Marie Straub, insieme a Danièle Huillet, irrompe per quasi dieci minuti sparlando, all’apparenza, della letteratura. Altri dieci minuti di camera statica a Charlottesville, luogo del massacro neonazi del 2017. Altrove le immagini sono montate a ritroso, fermate, accelerate (celebri i film del cuore sparati da Fuori orario in moviola video), imperfette con tutte le sbavature e i glitch dei supporti antichi, magnetici, ormai modernariato – eppure caldi di un calore che il 4K non avrà mai.

Schegge sonore. Le parole “fuori orario” pronunciate per la prima a 28’15”, l’audio del finale di Dillinger è morto (1968) che zufola di punto in bianco su tutt’altre immagini, la voce di Lydia Simoneschi, doppiatrice di Ingrid Bergman, in Europa ’51 durante il test di Rorschach (“Non so, sono solo delle macchie”), David Lynch beccato a un bancone del bar, sigaretta in mano, che dice – forse – “Ciao amigo”. A un’ora, ventisette minuti e nove secondi. Qui il montaggio è di un jazz rapinoso, tra le piste sonore c’è il circuito di Monza, e allora Lynch potrebbe anche aver detto Now a Vigo, dando il via alla sigla con L’Atalante. Cose (mai) dette. E, scheggia video tra schegge di ogni tipo, c’è pure la sigla di Fuori orario col tuffo e Because the Night, ma solo per un millisecondo, quasi subliminale. Impossibile non vederla, impossibile non completarla nella propria testa fino alla fine, Jean Dasté uscito fradicio dal canale che si guarda intorno.

A due ore e venticinque minuti di film arriva la title card, che è poi quella della versione video della messinscena di Ronconi ispirata al dramma di Kraus, anno 1991. Seguono quasi venti minuti col monologo del “criticone” (der Nörgler) interpretato da Massimo De Francovich, quinto atto, scena cinquantaquattro. A intervallare il primissimo piano dell’attore intervengono lampi da Fuego en Castilla di José Van del Omar, le facce azzurre dei soldati post-apocalittici dei sogni di Kurosawa. Poi la marcia in bianco e nero, lercia e senza fine, del Kárhozat (1988) di Tarr Béla.

Fuori orario è (stata) la Fackel di enrico ghezzi. Gli ultimi giorni dell’umanità si alimenta di quello spirito per tentare un’ibridazione di archivi, azzardare una sintesi impossibile, ribadire un metodo – sempre Grifi, sempre Debord – e trasformarlo, somministrarcelo, vedere l’effetto che fa. “E che questo sia uno spettacolo” canta Battiato nell’inedito del 1996, dedicato a Fuori orario, che fa partire i titoli di coda. In cui si trova l’elenco di tutte (?) le opere citate, intessute, mutate nel quadro degli Ultimi giorni. Elenco dovuto, ma che non risolve al cento per cento la sublime incertezza di non sapere quel che si è visto o sentito. Un elenco che Fuori orario non ha mai offerto. Mi ci sono voluti letteralmente trent’anni per capire che un frammento utilizzato in un montaggio dedicato a Pasolini era tratto dai Cannibali di Manoel de Oliveira. Ogni tanto penso ancor ad altri frammenti misteriosi. È la bellezza di un flusso anaccademico che rinuncia a didascalie e piè di pagina, un taglia e cuci che fa molto più di citare. Ricrea, ribalta, lancia su un nastro di Moebius. Un vagare, un naufragare e un ardere. Andiamo in giro di notte e ci lasciamo consumare dal fuoco.

Aura Ghezzi negli Ultimi giorni dell’umanità (2022) di enrico ghezzi e alessandro gagliardo.

Dr. Fanck

Si chiamava Faucet, e i file che generava s’avviavano tutti con un rumore di Cinquecento dalla batteria scarica. Intorno al 2010, per un paio d’anni è stato possibile usare questo videoregistratore virtuale, che aveva accesso a molti canali generalisti e persino ad Arte. A qualche anno dal trasferimento in Germania, senza alcun cavo televisivo funzionante in casa, potei di nuovo interessarmi alla programmazione di Fuori orario. E una bella settimana, Ghezzi & co. se ne uscirono con una notte “bastarda e giapponese”, sfoggiando un classico di Kurosawa in bianco e nero, un frammento di Kurosawa a colori accecanti preso da Sogni e una prima tv sconcertante: Die Tochter des Samurai (1937) di Arnold Fanck e Itami Mansaku.

La figlia del samurai non rientra nel classico elenco dei film “unter Vorbehalt” come quelli di Riefenstahl o certi melodrammi velenosi di Harlan, per intenderci, ma è in tutto e per tutto un film di propaganda nazista. Segnatamente, il film di propaganda ideato nel 1936 per suggellare il patto tra Germania e Giappone. Goebbels ne finanziò metà budget con 50.000 marchi del Reich (per approfondire, qui e qui) e il dottor Fanck scrisse la sceneggiatura direttamente sull’isola, una volta acclimatatosi. Malgrado la pellicola sia di solito accreditata solo a lui, il regista locale Itami diede una mano nella direzione degli attori e nel colmare le enormi lacune comunicative. Itami, di vedute liberali, fu anche uno dei primi a criticarne gli esiti. Quanto a Fanck, sempre col Doktor davanti per sottolineare il dottorato (enorme discrimine classista in Germania tanto allora quanto adesso), il grande salto nel cuore del Dr. Goebbels fece cilecca, e al contrario di Veit Harlan – e molti altri cocchi del ministro – la sua carriera di regista di lungometraggi sarebbe terminata di lì a poco.

Agli occhi dei cinefili di oggi, Die Tochter des Samurai sconcerta per la presenza di Hara Setsuko, futura musa di Ozu qui diciassettenne intenta a biascicare frasi in tedesco sulla sottomissione femminile. La trama? La trama. Teruo (Kusogi Isamu) torna in patria dopo aver studiato in Mitteleuropa. Con lui viaggia l’arianissima Gerda (Ruth Eweler), di cui è innamorato perso. Peccato che il buon Teruo sia già sposo promesso alla figlia del samurai – cioè di un vecchio riccone – che l’ha adottato a suo tempo per garantirsi continuità familiare. La figlia in questione, Mitusko, ha il volto radioso e innocente di Hara. Che per tutti questi anni, mentre Teruo era in Europa a farsi l’upgrade teutonico, ha imparato a fare la brava moglie (di suo fratello). Il melodramma dovrebbe scattare quando Teruo incontra la famiglia adottiva ma rifiuta il matrimonio impostogli, adducendo come motivazione un concetto subito trattato con sufficienza da Gerda – la libertà individuale. La prima crepa nel dandy Teruo si profila quando l’irraggiungibile donna ariana gli fa pesare il debito nei confronti del samurai, ridicolizza la decadente idea di libertà in stile vecchia Europa e loda un drappello di soldati nipponici che avanzano in perfetta sincronia. “E questi sarebbero individualisti?”

La seconda crepa sa di terra. Teruo va in visita alla famiglia biologica, si mette a lavorare in una risaia, afferra una zolla fradicia e se la porta al volto, annusandola come inebriato. Suo padre annuisce, ma aggiunge che quella terra è vecchia. E qui s’inserisce il tema cruciale del film, ben rispecchiato dal titolo giapponese “Terra nuova” (e dal nome della casa di produzione tedesca, Terra). A poco servono i tentativi di Fanck di offrire al pubblico un centone orientalista della cultura giapponese, azzardando peraltro paragoni con la Germania ancestrale e modernissima, marziale e tutt’uno col Führer. Il vero fulcro geopolitico è dato dal concetto di Lebensraum: ai giapponesi manca l’aria, e quell’aria – insieme a un sacco di terra fertile – si trova là, in Manciuria, regione promessa da conquistare a tutti i costi e da sfruttare con fascistissima efficienza.

Fanck non è uno Spielleiter, un regista d’attori. Considerato l’inventore del genere Bergfilm, il film di montagna, il suo nome ricorre nelle storie del cinema perché ha lanciato Leni Riefenstahl (come attrice) buttandola tra gli iceberg o su un paio di sci, come in Der weiße Rausch (L’ebbrezza bianca, 1931). La sua opera più famosa, Die weiße Hölle vom Piz Palü (1929), funziona perché c’è Pabst a dirigere gli attori (tra cui l’onnipresente Leni). Il finale alterna due primissimi piani, viseità avrebbe detto Deleuze, a una valanga ripresa in campo lunghissimo. Cinematograficamente, bingo.

Die Tochter des Samurai scade nel ridicolo involontario ogni volta che vi sono delle interazioni tra i personaggi, annoia a morte quando tenta la carta del documentario sociologico ma si risveglia d’improvviso a contatto con la natura, meglio se spoglia, arcigna, minacciosa. Un vulcano. Gerda viene a sapere che i giapponesi hanno un temperamento tale che o erutta, o si lancia nella lava. Mitsuko, rifiutata come mogliettina, indossa il kimono di nozze e si avventura sulle pendici del monte Fuji, arrivando al cratere. Imbeccato dalla saggia Gerda (che non vede l’ora di tornare a Berlino anche perché non riesce manco a usare le bacchette), Teruo capisce che sua sorella vuole suicidarsi, si butta in un lago per fare prima e sale a sua volta su per il vulcano in pieno risveglio, tra miasmi e rocce roventi. Di punto in bianco, il montaggio apparentemente distratto e poco ispirato trova una chiave, e per un buon quarto d’ora il film diventa un film.

Così pienissimo di vulcani il cinema, fino agli anni Trenta, non lo è stato di sicuro. Già dopo una decina di anni il tema avrebbe acceso l’epico scazzo tra Rossellini e Magnani, con la “guerra dei vulcani” (Stromboli terra di Dio vs. Vulcano), e al giorno d’oggi, oltre a fior di disaster movies hollywoodiani, vale almeno la pena citare le impagabili escursioni di Werner Herzog in compagnia di Clive Oppenheimer. Fanck individua nel vulcano attivo la forza rocciosa della natura più adatta al proprio sguardo, e la rende teatro di un prefinale decotto nello spirito ma affascinante sul piano prettamente visivo. Il ricongiungimento in cima con Mitsuko che si china ad accudire i piedi piagati del futuro marito è, come dire, un pochetto anticlimatico.

Herzog è da sempre un fan dei Bergfilme di Fanck o Trenker. E come Fanck, la sua forza non sta nella messinscena attoriale. Basta vedere Grido di pietra (1991) per capire che senza dialoghi e senza trama le sue riprese in alta montagna funzionerebbero molto meglio. La grande estasi dell’intagliatore Steiner (1974) è forse il migliore esempio di Bergfilm. Ci sono l’elemento umano, la sfida sportiva, il bianco imperante, e Herzog filma quello che filma da sempre, cioè l’uomo al limite, ricorrendo a una figura retorica non certo nuova della sintassi cinematografica: il ralenti. Solo che rispetto al legnoso Fanck, capace al massimo di stupire, Herzog instilla nello spettatore una condizione estatica: il sublime accessibile, captato e decodificato dal cinema.

La figlia del samurai si conclude in chiave fantascientifica, con Teruo in groppa a un trattore che ara la Manciuria – o meglio il fragile Manciukuò. Si ferma, scende, va incontro a Mitsuko col pupo. Prende il pupo. Lo solleva, poi lo colloca in un profondo solco di terra. Il film uscì in Giappone con un montaggio diverso, che tuttavia non lo salvò da aspre critiche. L’uso della lingua tedesca, sfoderata dai protagonisti come una spada di casta, dovrebbe fungere da apriti sesamo, ma la grotta cui dà accesso si sarebbe rivelata piena di cacca radioattiva.