l’arte dell’ammutinamento

Titoli di coda di The Caine Mutiny Court-Martial (2023)

Se Megalopolis è un corallo frattale, poroso e inafferrabile, l’ultimo film di William Friedkin è uno zippo compatto e scintillante, che fa quel che deve fare. Trasformarci le pupille in scintille. Il paragone è ovviamente non richiesto, ma è affascinante pensare al fatto che Coppola e Friedkin abbiano lavorato in contemporanea al loro ultimo lungometraggio, e che gli esiti siano così differenti. Di Megalopolis s’è fatto un gran parlare per decenni, a ridosso dell’uscita molto gossip, dopo l’uscita ogni cinefilo, dal videocassettaro al moderno letterboxdeur, ha detto la sua. Sul canto del cigno certificato di Friedkin, morto un mese prima del passaggio al Lido, poche reazioni e rare analisi approfondite.

Un possibile motivo è che il film non è uscito al cinema, parcheggiandosi subito su Paramount+ come produzione Showtime. Nei titoli di coda salta all’occhio che la sceneggiatura dello stesso Friedkin, tratta dal premio Pulitzer di Herman Wouk (1951), è accreditata come “teleplay”. Friedkin viene dal mezzo televisivo e non ha mai disdegnato occasionali ritorni, spesso alimentari, arrivando a ipotizzare, negli ultimi anni, persino una miniserie ispirata a To Live and Die in L.A. (1985). Formatosi nel documentario, e ottenendo un primo successo nel 1962 con The People vs. Paul Crump, nel 1965 con Off Season Friedkin diresse l’ultimo episodio dell’Alfred Hitchcock Hour. Il debutto industriale coincise con un musicarello di Sonny e Cher, cui seguirono un film tratto da Harold Pinter e l’allegra commedia di costume “artsy fartsy” The Night They Raided Minsky’s, scollacciato come poteva esserlo un film americano pre-sessantottino.

Per chi scrive, il capolavoro numero uno a firma Friedkin arriva nel 1970 con l’adattamento per lo schermo della pièce The Boys in the Band di Mart Crowley, film amarissimo sulla condizione omosessuale, oggi indubbiamente superato ma per molto tempo necessario come lo fu Nicht der Homosexuelle ist pervers, sondern die Situation, in der er lebt (1971) di Rosa von Praunheim, esempio da manuale di cinema attivistico e volontariamente antipatico. Il punto di vista di Friedkin è sempre stato eterosessuale, “alleato” ma non direttamente coinvolto, e con Cruising (1980, capolavoro numero ics) riuscì nella non facile impresa di offendere la comunità e disgustare il pubblico generalista. Eppure, la distanza tra i due film, lo scarto siderale tra un Kammerspiel di compleanno e un mistero irrisolto nella scena BDSM newyorkese, riesce non solo, a posteriori, a tracciare la parabola degli anni Settanta, aperti da Stonewall e chiusi dal silenzioso diffondersi dell’AIDS, ma dimostra anche la crescita di Friedkin come regista macinageneri, sempre pronto a togliere tappeti da sotto i piedi, anche i propri, dilapidando in tempi record qualsiasi medaglia di credibilità. Un autoammutinamento. In termini di botteghino, Friedkin non ha mai ripetuto la doppietta French Connection-Exorcist, ma è proprio con Sorcerer (1977), remake del Salario della paura assurdamente camuffato, nel titolo e nelle primissime immagini, da sequel dell’Esorcista, che si coglie il suo andamento anguilloso e autenticamente ribelle. Scomodo e queer come un’arancia all’orologeria.

In televisione, Friedkin tornò già nel 1985 con un celebre episodio “tardo” della Twilight Zone, Nightcrawlers, che porta il Vietnam con poteri ESP in un americanissimo diner. Nel 1994 diresse uno dei titoli più improbabili della sua carriera, il film televisivo Jailbreakers con Shannen Doherty, solo per completisti, ma come ogni sua opera anche minore – vedi Rampage, o The Guardian – le zampate non mancano, e si ha sempre l’impressione che la storia cali su di noi come una scudisciata. Alla fine di The French Connection, il boss interpretato da Fernando Rey scompare nel nulla, vanificando gli sforzi di una polizia antropologicamente non molto diversa dalla mala. L’eroe o presunto tale di To Live and Die in L.A. crepa con la rapidità di Janet Leigh in Psycho, senza nemmeno beneficiare di un ultimo primo piano. Il trasferimento di Pazuzu nel giovane prete alla fine dell’Esorcista, in modo da eliminarlo rovinando giù per le scale, fu un compromesso. Friedkin ha sempre preferito le vicende zoppicanti, i finali aperti, il fallimento rispetto all’apoteosi. Lo si vede graficamente, in forma di burla, nell’ultimissima inquadratura della sghemba commedia militare Deal of the Century, e lo si legge nella chiusa della sua autobiografia The Friedkin Connection (2013), in cui il regista ammette di non aver fatto il proprio Citizen Kane, ma è questo che ama in quello che fa. “Forse fallirò di nuovo. La prossima volta fallirò meglio”.

E allora la sua famosa intervista a Fritz Lang del 1975, al culmine della fama, può essere vista non come un dialogo tra maniaci del controllo e della precisione, ma tra indagatori del male, esperti nello smascherare il lato oscuro di ogni società e individuo, senza tuttavia fornire panacee o cariche con squilli di tromba. Il dottor Mabuse come metafora universale, tentacolare e inestirpabile. Nicolas Winding Refn ha avuto la baldanza di ripetere il gioco con Friedkin nel 2015 intervistandolo su Sorcerer, arrivando ad autodefinirsi suo delfino. La reazione di Friedkin, tra il divertito e il corrosivo, è uno dei motivi per cui ci si può tranquillamente avvicinare ai suoi film passando per il personaggio, un metodo consentito da pochi giganti del gigioneggiamento come Hitchcock o Herzog. Altro video imperdibile: Friedkin, autore di uno degli horror più importanti di sempre, che incorona Tobe Hooper e il suo debutto in 16mm Texas Chain Saw Massacre (1974).

C’è però un filone friedkiniano che salta a piè pari la dimensione dell’incompiuto inquietante, del tappeto tirato via. Si tratta spesso di lavori su commissione, come i solidi Rules of Engagement (2000) e The Hunted (2003), o il remake televisivo di Twelve Angry Men (1997). È in questo alveo che rientra anche l’ultimo The Caine Mutiny Court-Martial, fondendo la claustrofobia e i dialoghi al fulmicotone del classico di Reginald Rose e Sydney Lumet all’atmosfera in divisa del courtroom drama anno 2000, che avrebbe potuto benissimo recare la firma di Eastwood. Qui Friedkin dimostra di saper dirigere senza sbavare, concentrando in quattro pareti la sua analisi spietata dell’essere umano, delle fandonie in cui crede, che dirama e di cui è mero strumento. Il film ha un impianto granitico e termina con un ceffone – figurato: evito spoiler – che serra la trama, chiude i conti dei personaggi e ci arriva in fronte come un’onda sismica. Il male, ancora, ineluttabile e serpeggiante, stavolta nella forma di una giustizia ingiusta in cui anche noi abbiamo creduto.

Chi conosce il testo originale e ha visto il film del 1954 di Edward Dmytryk, con Bogart nei panni dello psicotico capitano Queeg, sa già dove si va a parare. Anche Robert Altman ha adattato la pièce nel 1988. Friedkin aggiorna il materiale portando la nave dal Pacifico al Golfo, ci aggiunge un tocco di internet a bordo e abbraccia in pieno il genere del legal drama militaresco, senza alcuna scena girata in esterni, tanto meno flashback tra i flutti. Il contrasto con la follia allucinata di Bug (2006), la maramalderia di Killer Joe (2012) o il protodocumentarismo di The Devil and Father Amorth (2017), demoniaco e demenziale nel suggerire come anche l’Esorcista sia a suo modo un documentario, è quanto di più netto. Nel ping pong delle testimonianze, delle teste parlanti, delle psicologie definite passo passo, l’ultimo film di Friedkin è un capolavoro drammaturgico che fa impallidire pur ottimi film come i succitati Bug e Killer Joe, entrambi adattati (e sceneggiati) da Tracy Letts. La svolta reazionaria nel finale, farina del sacco di Wouk, è uno specchietto per le allodole riconducibile al genere bellico. Il tema vero resta la necessità di grattare la superficie, sapendo che non ne salterà fuori nulla di buono. Giustizia non è fatta, perché la verità sfugge.

Con The People vs. Paul Crump, William Friedkin salvò la vita di un uomo. In molti dei suoi film successivi questa forza edificante del cinema che cambia e migliora la realtà si trasforma in un’indagine dolente sulla pervasività del maligno. The Caine Mutiny Court-Martial, così inattuale col suo status di ennesimo adattamento, con le sue atmosfere impettite, i personaggi quasi sempre seduti e scuri in volto, torna a uno schema impeccabile, rinuncia a vuoti abissali e scivoloni, e ci consegna un dossier agghiacciante, ma almeno definitivo, sulla nostra anima rotta.

Titoli di coda di Twelve Angry Men (1997)

dissolvenze incrociate

Dettaglio di un poster di Megalopolis (2024)

Francis Ford Coppola ha due rimpianti. Il primo è non aver trovato la forza di licenziare Vittorio Storaro all’inizio delle riprese di One from the Heart, quando il direttore della fotografia si oppose all’idea di girare il film come una serie di piani sequenza. L’idea di Coppola, da lui battezzata “live cinema”, era di riprendere il tour de force hitchcockiano di Rope (1948) spostandolo in un teatro di posa molto più grande, ovvero i nuovissimi e ultratecnologici Zoetrope Studios. Sebbene si parlasse già di digitale, che al tempo significava video, quindi fondamentalmente videoclip e potenziamento del mezzo televisivo (una sperimentazione cara anche ad Antonioni nei primi anni Ottanta), le macchine da presa andavano ancora a pellicola, e come per Hitchcock la durata massima di un piano sequenza era di dieci minuti. One from the Heart ha conservato il concept di film teatrale – e musicale – al neon, tra le pareti di un mondo a parte come i teatri di posa di cui andavano gelosissimi Jean-Pierre Melville o Jacques Tati, ma sul fronte del montaggio non spacca, per sottrazione e virtuosismo, come avrebbe voluto Coppola. Il secondo rimpianto è aver lasciato alle giovani generazioni una Hollywood non migliore di quella che aveva trovato. Rimpianto probabilmente condiviso dai sodali della New Hollywood degli anni Settanta, sonoramente schiaffeggiati a cavallo del decennio Ottanta da una serie di flop – economici – clamorosi. Scorsese con New York New York, Spielberg con 1941, Cimino con Heaven’s Gate, e Coppola proprio con One from the Heart. Il terzo grande rimpianto sarebbe stato quello di non fare Megalopolis. E invece.

Megalopolis c’è, ed è una festa. Il progetto è esistito nella testa di Coppola per almeno quarant’anni, e rappresenta di fatto la prima corazzata post-Apocalypse, oltre che la prima sceneggiatura coppoliana del tutto originale dopo The Conversation (1974). Da spettatori, sappiamo che negli anni Ottanta Coppola non si è fermato un attimo, portando sullo schermo uno sciame di “semi misteriosi”. Così chiama Alice Rohrwacher i lavori su commissione, sceneggiature o proposte che arrivano via etere, talvolta via posta. Nel caso di Rohrwacher, Le pupille (2022) è l’esempio principe di un seme misterioso da cui sboccia una piantina perfetta. In sostanza, tutti i film diretti da Coppola negli anni Ottanta e Novanta sono semi misteriosi, adattamenti e prodotti di genere, sebbene la sua impronta non manchi mai. C’è chi sostiene, ad esempio, che Tucker (1988) sia il film più eloquente sulla poetica coppoliana, grazie alla metafora del genio idiosincratico, isolato e fallimentare in stile Tesla. Rumble Fish (1984), col suo bianco e nero, i pesci colorati e la rabbia giovane che lo innerva, è al contempo un reboot d’autore di The Outsiders (1983) e la prima, decisa virata di Coppola verso un cinema libero dai lacci dell’industria. Persino Peggy Sue Got Married (1986), solo in apparenza un sottoprodotto di Back to the Future (1985) visto che la sceneggiatura è antecedente, è intriso della classica malinconia coppoliana e a posteriori rappresenta il primo capitolo della sua riflessione sul tempo, proseguita con Bram Stoker’s Dracula (1992), Jack (1996), Youth without Youth (2007) e Megalopolis. O meglio: cominciata con Megalopolis.

Sempre citando Rohrwacher, Megalopolis è una pianta autoctona. Nata e cresciuta nell’orto del suo giardiniere. Le meraviglie (2014) è una pianta autoctona. Lazzaro felice (2019) è una maestosa, commovente pianta autoctona. Nella filmografia di Coppola, The Conversation lo è, Apocalypse Now lo è, e dagli Novanta il controllo autoriale, o agreste, si riaffaccia: un Dracula girato con idee artigianali da fine Ottocento, tutto effetti ottici e costumi, una commedia sghemba che in realtà rielabora la morte di un figlio (Jack), la decisione a partire da The Rainmaker (1997) di tornare a scrivere personalmente le sceneggiature. Uno scarto che si sente, tanto da trasformare un semplice “Grishamovie” in una pellicola straziante e riuscita. Anche i tre piccoli film realizzati tra il 2007 e il 2011 sono quanto di più autoctono potesse permettersi Coppola all’epoca, col gravame di una fama ancorata agli anni Settanta. Tetro (2009), di nuovo in bianco e nero, è la quintessenza della sua filosofia: un poemetto abbacinante sulla famiglia e la ribellione (soprattutto visiva). Persino Twixt (2011) è una pianticella autoctona, con la sua esile riflessione sull’autorialità e il parziale ricorso al 3D, allora di moda, che vale come un ritorno alle origini, alle produzioni sghembe di Corman e Castle, quindi al debutto di Coppola con Dementia 13 (1963). Già Twixt è una favola ancestrale. Il sottotitolo di Megalopolis è “A Fable”.

Megalopolis è una festa. Come alcune feste, ci mette un po’ a ingranare e non tutti i momenti sono memorabili. Il gradino più alto riguarda l’iniziale sospensione dell’incredulità. Siamo in una New York del futuro ribattezzata New Rome, immersa in colori gialli metallizzati. Se ci si aspetta da Megalopolis un tuffo nell’immaginario immediato e ipnotico come in Blade Runner, meglio abbassare l’asticella. Spesso, puntando alla grande forma, il film non ce la fa, ed è doloroso dire che il grosso della sua produzione, cioè le riprese dal vivo e l’afflato magniloquente, partoriscono topolini. Va detto però che Megalopolis dovrebbe chiamarsi Multilopolis, perché schizza in tutte le direzioni e fa capire, gradualmente, qual è il suo punto di forza. Che non è certo nella concretezza delle immagini o nella solidità della sceneggiatura. Aggiornato, come ha ribadito più volte Coppola, centinaia di volte, lo script sembra essersi allentato invece di blindarsi, e probabilmente l’andamento a singhiozzo delle riprese ha agevolato un’ulteriore mutazione. È un film di fantascienza, Megalopolis? Non tantissimo, sicuramente meno di Metropolis. È un film politico, un pamphlet sociale sull’America? Non più dei Padrini o di Tucker. È un viaggio, come Apocalypse Now? No. È un film stanziale, un film-città, una distopia che si tramuta in utopia, recando quindi una struttura da commedia. Megalopolis è soprattutto un film visionario senza filtri, anche di buon senso, una festa privata. Per una decina di minuti diventa persino un incredibile body horror. È un magma di cinema che contiene tutto e il suo contrario, una canzone cantata da Grace VanderWaal in una mezzaluna appesa e un videoclip metal sparato di pacca tra le fiamme.

Megalopolis funziona quando crolla, quando si sfalda. Le scritte scolpite nel marmo, sparpagliate in tutto il film e memori di Bram Stoker’s Dracula, sono credibili come la cartapesta che anticipa daghe e sandaloni. Anche i tentativi di ammodernare una vecchia sceneggiatura sembrano non essersi spinti oltre l’idea di mostrare dei QR code. Sul fronte attoriale, Adam Driver pare reduce da una sessione di SNL, e malgrado la compresenza di Jon Voight e Dustin Hoffman il film buca una possibile reunion di Midnight Cowboy, che avrebbe potuto replicare la scaltrezza del dialogo al diner in Heat (1995) tra De Niro e Pacino. Hoffman a un certo punto scompare insieme alla sua sottotrama, schiacciato in meno di cinque secondi da delle colonne che crollano e sostituito da una statua a futura memoria. Una exit strategy che ricorda l’esilio di Joan Chen nel pomello di un cassetto, seconda stagione di Twin Peaks. In Megalopolis il racconto zoppica, la creazione di un universo è ondivaga, tenue, ma il nucleo del film non ha bisogno di questi vecchi mezzi da Ben Hur. Per creare l’atmosfera di una megalopoli futuribile ha solo bisogno di un’immagine, cioè la cima dell’Empire State Building.

La svolta è il momento dell’interazione col pubblico. Una scena entrata nella storia a Cannes, quando il film venne presentato in concorso. Alcuni secondi di buio, una piantana con microfono sistemata davanti allo schermo, e Jason Schwartzman che interpella Cesar Catilina (Driver) nel film. Una trovata non replicabile su larga scala, tant’è che nella versione standard per le sale la voce dell’intervistatore è off, mentre Driver risponde all’interno di un rettangolino in basso, circondato dal buio dello schermo. Se fino a quel momento Megalopolis ha regalato solo episodici sprazzi, l’idea grandiosa delle statue vive che crollano, una scrivania immersa nella sabbia, singole inquadrature lampo inserite come le animazioni spiazzanti di Jane Campion, il rush finale è tutto visivo. In un certo senso, è come The Godfather Part III che dà il meglio di sé nell’ultima macrosequenza della Cavalleria rusticana. Ma in Megalopolis non sono le riprese a salvare il film, bensì il montaggio – di Cam McLauchlin e Glen Scantlebury – che regala sempre più spesso una sinfonia di dissolvenze incrociate in pieno stile Coppola. La narrazione per immagini spiega le ali tramite una fusione di immagini. Non solo: intervengono altre transizioni classiche, come lo split screen (a tre schermi, come Abel Gance) o il “tondino” che restringe l’inquadratura su un dettaglio, spesso un volto. Il film termina con un tondino – e con questa canzone-manifesto – così come One from the Heart apre il sipario su un tondo che va a coincidere con la luna. In Megalopolis, il sindaco Cicero (Giancarlo Esposito) sogna una mano che spunta dalla nuvolaglia per afferrare la luna, una parentesi degna di Meliès.

Megalopolis sbanda tra momenti di puro Nascar cinematografico e una “lively conversation”, anche su di noi, l’America e il pianeta, tanto ambiziosa quanto credibile. Il misterioso materiale organico Megalon che l’architetto Cesar utilizza per le sue costruzioni arriva a invadere il suo stesso corpo e la struttura del film, che pulsa come un’alga misteriosa, un metallo raro, un elemento nuovo sulla tavola di Mendeleev. Quello che racconta, in termini di parole pronunciate e azioni mostrate, conta il giusto. Megalopolis è un’ode alla famiglia intesa come trasmissione del sapere e della speranza, una Tucker roboante lanciata su autostrade perdute, un salto di libertà nel vuoto più assoluto. Molto semplicemente, un atto creativo allo stato brado.

Da un quarto di secolo, Coppola sforna director’s cut e rimaneggiamenti dei suoi film. A cominciare da Apocalypse Now, ora disponibile in tre montaggi uno più bello dell’altro. The Outsiders, The Cotton Club, The Godfather Part III esistono in versione rimontata, non sempre facilissima da reperire. Persino Twixt ha fatto il tagliando, e nel 2023 è uscita una versione Reprise di One from the Heart, più breve rispetto all’originale. In gran parte si tratta di vecchi semi misteriosi, figli del compromesso, che ora recano un’impronta più profonda del loro autore. Improbabile che Megalopolis, pianta autoctona cresciuta nell’ombra per quasi mezzo secolo, sia sottoposta a un trattamento del genere. Continuerà a crescere, questo sì, e a cambiare, negli occhi di chi l’ha vista. Un po’ come un altro film unico e irripetibile, l’unico che Coppola cita esplicitamente in Megalopolis: The Night of the Hunter (1955).

Titoli di testa di One from the Heart (1982): dal sipario alla luna.

è notte

Esterno notte (2022), episodio 4: Valerio Morucci (Gabriel Montusi) guarda dallo spioncino in stato sonnambolico.

La commedia, sostiene l’untuoso Lester (Alan Alda) in Crimes and Misdemeanors (1989), è tragedia più tempo. E il sublime cos’è? Forse una tragedia collettiva, compressa nel sangue di uno statista e della sua scorta, reinterpretata a intervalli regolari tanto da diventare una vicenda biblica. Marco Bellocchio non ha sempre aspettato per affrontare temi scottanti come le tesi di Basaglia (il documentario a più mani Matti da slegare, 1975) o il caso Englaro (Bella addormentata, 2012). Ma in alcuni casi il tempo se l’è preso, sia per rielaborare un trauma, sia per tornare sul luogo del delitto. Chiamiamolo così. Nel 1982, con Gli occhi, la bocca, ha azzardato un sequel impossibile dei Pugni in tasca. E nel 2021 ha racchiuso in un documentario decenni di riflessioni e traumi familiari. Un ritornare che non ha nulla a che spartire con la serialità tentacolare e industriale da MCU o da Netflix, e nemmeno con la coazione a ripetere di Woody Allen. I suoi ritorni sono dolenti e pensosi. Come l’Inserto girato a Lisca Bianca (1983), col quale Antonioni torna per meno di dieci minuti sull’isola della scomparsa di Anna nell’Avventura, mostra solo rocce e flutti a colori e lascia l’audio del film del 1960. Oppure, Krzysztof Zanussi. Che nel 2000 gira Życie jako śmiertelna choroba przenoszona drogą płciową (La vita come malattia fatale sessualmente trasmessa), storia di un medico (Zbigniew Zapasiewicz) ammalato di tumore, e un anno dopo, con Suplement, racconta la medesima vicenda adottando il punto di vista di un comprimario del primo film – mantenendone intatte intere sequenze. Suplement integra e approfondisce i contenuti di Życie, offrendo un’ottica meno lugubre. Con la serie Esterno notte, in sei episodi, Marco Bellocchio torna letteralmente sul luogo del delitto Moro, già affrontato in Buongiorno, notte (2003). Un supplemento? Forse. Ma per togliere ogni speranza.

Il film di vent’anni fa, realizzato dopo il formidabile ritorno alla forma de L’ora di religione, era liberamente tratto da un libro, Il prigioniero, di Anna Laura Braghetti e Paola Tavella. La nuova serie si basa su un soggetto originale di Bellocchio, Stefano Bises e Giovanni Bianconi sceneggiato insieme a Ludovica Rampoldi e Davide Serino. Buongiorno, notte (d’ora in poi senza virgola) si concentrava sul nucleo di brigatisti responsabili del sequestro Moro, in particolare Chiara / Adriana Faranda (Maya Sansa). Celebre, e ormai non è uno spoiler, il finale sognato con lo statista (Roberto Herlitzka) che esce dall’appartamento mentre tutti dormono e passeggia spensierato all’Eur, solo ma libero. Un sogno attribuibile a Faranda e alle sue remore circa l’uccisione del presidente democristiano. Esterno notte, che invece di durare un’ora e quaranta ne dura quasi sei, è inevitabilmente una tela più spaziosa. L’idea scardinante del film monopolizza, di fatto, tutto l’episodio 4, con Daniela Marra nei panni di Faranda. Il primo e il sesto vedono protagonista Moro (Fabrizio Gifuni), il secondo Cossiga (Fausto Russo Alesi), il terzo Paolo VI (Toni Servillo) e il quinto Eleonora Moro (Margherita Buy). Gli episodi 2-5 ripropongono quindi i mesi del sequestro da diverse prospettive. Torna la tentazione di liberare Moro – nel sogno a occhi aperti di uno dei protagonisti – proposta qui all’inizio della serie, tanto da creare aspettative forse ingannevoli. Ma alla fine è sempre la storia a prendere il sopravvento, mediante il ricorso spietato a materiali di repertorio.

Buongiorno notte è classic Bellocchio: rigoroso, sfacciato, a volte ieratico – o schematico. Dedicato “a mio padre”, il film mette in scena un Moro-sfinge che non riesce davvero a svincolarsi dal magnetismo di Herlitzka. Anche Luigi Lo Cascio nel ruolo di Mario Moretti è più robotico che inquietante, tant’è che quando conciona col passamontagna sembra Diabolik. Debole anche la sottotrama “meta” con Paolo Briguglia (Enzo Passoscuro, classico nome finzionale da film di Bellocchio) che fa la corte a Faranda ed è autore di una sceneggiatura eponima del titolo. Meglio, nella serie, l’inserimento plausibile dell’instant movie studentesco sul sequestro, col cameo di Ruggero Cappuccio. In Buongiorno notte ci sono tuttavia dei colpacci: i brigatisti che mormorano come in trance “la classe operaia deve dirigere tutto” e si fanno il segno della croce prima di mangiare; i Pink Floyd di Dark Side of the Moon sparati sui servizi dei tg, su spezzoni di Paisà (1946) e su filmati stalinisti; l’idea di mettere in scena Moro come un condannato a morte della resistenza, suffragata dalla presenza fisica del libro Einaudi con le lettere dei partigiani ammazzati. Le lettere di Moro sono la spina dorsale tanto del film, quanto della serie. Sia per i loro pregi letterari, sia perché le sceneggiature di Bellocchio sembrano voler trovare spazio tra le loro righe, arrivando a integrarle. Esterno notte si apre infatti con una sbalorditiva lettera fittizia in cui Moro si dimette dalla DC.

Nella pellicola, la condanna a morte viene pronunciata dopo un servizio televisivo che parla della chiusura dei manicomi. La follia, o presunta tale, è un filo rosso che attraversa tutta la vita familiare e l’opera cinematografica di Bellocchio. Moro venne spacciato per pazzo dalla politica e dai giornali dopo la divulgazione della prima lettera, una mossa forzata dalla strategia della fermezza che Esterno notte illustra meticolosamente. Quanto ai brigatisti, Bellocchio non commette mai l’errore di appiattire l’ossessione ideologica per la lotta armata a mera psicopatia. Non tutti sono consumati dai dubbi di Faranda, ma anche nella figura monolitica di Moretti (reso alla perfezione da Davide Mancini nella serie), più che la volontà omicida colpisce semmai la strenua cecità dinanzi alle contraddizioni. Moretti è lucidamente ottuso. Nella miniserie, nell’arco di un minuto ignora un mendicante e resta indifferente dinanzi a uno scippo: a lui interessa solo la difesa di una classe operaia assoluta e contumace, alla quale peraltro non appartiene. E che non conosce. Anche lui padre, nel film ammette di non vedere il figlio da anni per portare avanti la causa rivoluzionaria. Il “proletario” finisce per collimare col sol dell’avvenire. Il brigatismo assume la forma di un’autoipnosi di minoranza, decisa a vendicare l’orrore della catena di montaggio. È una religione, il brigatismo, che ammazza per sentirsi viva. Bellocchio riesce sempre a toccare il tema della fede, non importa in cosa, evitando sbavature nonostante le tinte fortissime. Quando i suoi personaggi si scagliano contro l’istituzione della famiglia, lo fanno nel quadro di un discorso che eleva la famiglia. Lo stesso vale per il cattolicesimo, per lo Stato, per l’ideologia.

Esterno notte, prodotto televisivo per caso, ricorda molto da vicino la grande narrazione del Traditore (2019). Attori mimetici, ampio respiro, il coraggio di sfidare l’intrattenimento all’americana. Bellocchio ultraottantenne somiglia sempre di più al Coppola trentenne. Questo si vede non solo nelle scene più esplicite, o in quelle che investono il potere e la famiglia – temi da sempre cari a entrambi. Il secondo, straordinario episodio, incentrato su Cossiga, rievoca 1:1 le atmosfere paranoiche della Conversazione. L’ex ministro degli Interni, ciclotimico e sposato alla DC, con la vitiligine incipiente, trova un’inutile valvola di sfogo nelle cuffie per le intercettazioni. Dà ascolto persino a un veggente. Tutto si mischia nel ventre della Balena bianca eternamente al governo, a suo tempo con Andreotti primo ministro e i comunisti di Berlinguer a dare un sostegno esterno – l’obiettivo del centro-sinistra storico di matrice morotea. Le ore di Esterno notte, il ritmo ciclico degli episodi centrali, gli esiti scoranti della cosiddetta Notte della repubblica raccontano un naufragio collettivo e insensato, senza possibilità di redenzione.

Ma è passato del tempo, anche rispetto al film del 2003. E in Esterno notte Moro non è più un resistente morituro, bensì una figura cristologica. Regge la croce durante una via crucis immaginaria, con la compagine democristiana al posto dei fedeli. Tradotto: sulla figura di Moro si può ricamare con maggiore libertà. Come quando era ancora vivo. Nel 1976, l’anno di Todo modo di Elio Petri, da Sciascia, lo scrittore paragonò la pellicola a un’esecuzione, definendola nei termini di una cupio dissolvi pasoliniana. Nel film, sconclusionato e invecchiato male come tutti gli ultimi di Petri, Gian Maria Volonté interpreta un Moro non dichiarato, muovendosi in un’atmosfera tra il kafkiano e la dark room democristiana. Una scelta che a posteriori (cioè dopo il sequestro) non piacque, facendo quasi scomparire Todo modo per alcuni anni e spingendo Volonté a rivestire i panni del segretario DC nello scolastico Il caso Moro (1986) di Giuseppe Ferrara. Esterno notte è anche una risposta a decenni di cinema di impegno civile italiano. Col suo tema abissale, con la sua sceneggiatura che non ha paura di mostrare e aggiungere, col suo cast perfettamente equilibrato, la miniserie di Bellocchio riassume il meglio del cinema civile degli ultimi anni, scansando sia gli eccessi stilistici (vedi Sorrentino), sia il piattume benintenziato (vedi Amelio).

Un mélange non facile. Scegliere Toni Servillo per rianimare una figura come Paolo VI (che in Buongiorno notte è praticamente un manichino) significa sfidare l’intero immaginario sorrentiniano, col suo intruglio di papi, porporati, pretonzoli e suorine, Napoli e Roma al cubo. Per tacere del coraggio di rimettere in scena, tra il grottesco e il realistico-mimetico, tutto lo stato maggiore democristiano di quei tempi, non dissimile da quello che si vede nel Divo (2008). Ecco allora Andreotti (Fabrizio Contri, volutamente trattenuto), Zaccagnini (Gigio Alberti), il presidente Leone (Nello Mascia) e altri mostri, fino al realpolitischer Berlinguer di Lorenzo Gioielli. Il quarto episodio si apre col gruppo di terroristi che spara in riva al mare, direttamente nell’acqua. Un gesto inane e smargiasso che ricorda una scena di Gomorra (2008) di Garrone. Bellocchio frulla tutto questo, ci lancia dentro un attore feticcio come Bruno Cariello (già religioso per Sorrentino nelle due serie pontificie) nei panni di un prete e pure il figlio Pier Giorgio, brigatista in Buongiorno notte, qui con le mostrine da capo della Digos. È un frullato che sa di tempo che passa, digerito e ruminato. Nel primo episodio, sullo sfondo dei tafferugli, compare il poster di Anima persa di Dino Risi col ghigno mefistofelico di Gassman. Nel quarto, Valerio Morucci va al cinema a vedere Il mucchio selvaggio. Nel quinto, i servizi televisivi sulle ricerche nel Lago della Duchessa, al ralenti, sembrano uscire da un documentario di Herzog. La cronaca di allora, brutta sporca e cattiva, diventa il sublime di oggi.

Con gli anni, Bellocchio è diventato un visionario mite. Ora non ha più bisogno dei Pink Floyd per creare una dissonanza. Esterno notte sfoggia una sigla tarantolata – da Après la pluie di René Aubry – che dà subito un’idea di serialità ossessiva e ritornante. Il resto è farina del sacco di Fabio Massimo Capogrosso e, come già in Buongiorno notte, di Verdi. Anche il finale evita la svirgolata ottimistica del film, proponendo coraggiosamente cinque minuti di filmati di repertorio. L’ultima immagine di girato immortala Eleonora Moro al funerale privato nella cappella di famiglia, acquistata dal marito pochi mesi prima. Un dettaglio all’apparenza ininfluente, se non addirittura morboso, che però dimostra una vicinanza alla morte che il film non ha. Herlitzka che scende in strada serafico è quasi un’anticipazione dei finali antistorici, o meglio utopici, di film come Inglorious Basterds o Once Upon a Time in Hollywood. Al Moro allettato e vivo che si vede all’inizio di Esterno notte, disgustato dalla visita dei colleghi di partito, manca qualsiasi slancio vitale. È un sogno in linea con la realtà.

Sul finire del quarto episodio, i cadaveri di Moro e degli altri satrapi democristiani vengono portati vie dalla corrente di un fiume che potrebbe essere tanto il Tevere quanto il Trebbia. È un’immagine livida, come i sogni di Faranda in Buongiorno notte con lo statista che si aggira per casa e pesca i libri dagli scaffali mentre i brigatisti dormono. O come, nella miniserie, il buio pesto in cui si muove Valerio Morucci sonnambulo, con Faranda che lo segue e lo protegge. Oppure la carrellata notturna che mostra per un attimo il monticello di banconote vaticane (settanta miliardi delle vecchie lire) rimaste inutilizzate dopo il fallito tentativo di abboccamento con le BR. È il buio del confessionale, quando Eleonora racconta a don Giuseppe (Cariello) che non si sente più amata, mentre fuori risuonano già gli elicotteri. La penombra perenne della sala delle intercettazioni dove Cossiga capta il papa intento a conversare con un giovane sacerdote che vive in carcere. Il nero in cui si dissolve Paolo VI sullo scranno alla fine di Buongiorno notte, prima di restituirci le immagini di Herlitzka/Moro in un mattino presto che sembra novembre invece di maggio.

Un sogno. In Buongiorno notte, Chiara / Adriana confida a Ernesto / Germano Maccari che va spesso a guardare “lui” dallo spioncino della cella dietro la libreria per assicurarsi “che non sia tutto un sogno”. “Perché, vorresti che fosse tutto un sogno?” – “Non so, una cosa o l’altra” – “Io ho già risolto,” taglia corto Ernesto. “Non sogno più”. Vent’anni più tardi, ai templi supplementari, sognerà qualcun altro.

Titoli di testa del film di Zanussi del 2001.