toste verità (enraha)

Sally Hawkins sul trampolino in Happy-Go-Lucky (2008) di Mike Leigh

Bilancio del primo trimestre. All’università ho dato l’esame di polacco C1, per il quale ho dovuto lottare con la burocrazia (il mio piano di studi arriverebbe fino al B2), e ne sono uscito con un corrusco 1,3. Più un 1 secco per una tesina sul dialetto casciubo. Mi bacio i gomiti non per approfittare di questo safe space digitale di mia proprietà, ma mosso da un’emozione sincera e incredula, visto che studio il polacco da esattamente dieci anni, cinque alla Humboldt (ovviamente part-time), e in più di un’occasione una delle voci che ho in testa, rappresentante della vecchia, non sempre sana sindrome dell’impostore, m’ha sussurrato con distacco ‘non ce la farai mai’. E invece, almeno fino a questo punto, fatta ce l’abbiamo. L’ironia dei tanti progetti paralleli è che son tornato all’università per tuffarmi nel mondo nuovo della slavistica, imparare a raffica, perdermi e scovare sotto il segno della serendipity e alla fine aggiungere una lingua alle mie combinazioni di lavoro. Nel frattempo, il lavoro di traduttrice è diventato diafano come Marty McFly con la chitarra in mano, e la via maestra ha assunto i connotati di un posto fisso da bibliotecario in Prussia. Ovvero il piano B del mio studio alla Humboldt. Evviva i piani B.

Durante l’ultimo corso di polacco, insieme a commilitoni madrelingua abbiamo rivitalizzato un blog universitario nato un paio di anni fa, Polska nad Sprewą (la Polonia sulla Sprea), la cui idea di fondo è rintracciare orme e segnali culturali polacchi a Berlino. Per questa piattaforma polskoberlińska, tra le altre cose, ho recensito sia Kobieta z… di Małgosia Szumowska e Michał Englert, sia il sorprendente Vika! di Agnieszka Zwiefka, incentrato su Wirginia Talan Szmyt, dj ottuagenaria. Ho anche fatto qualche ricerca sugli autori polacchi che hanno scritto di Berlino.

Alla Tricianale, cioè la prima Berlinale a firma Tricia Tuttle, mi sono imbattuto nell’ultimo pastiche di genere di Cattet e Forzani, in un gustoso mediometraggio animato e ipercasalingo di Michel Gondry e soprattutto nel nuovo film di Edgar Reitz, che ho anche avuto il privilegio di intervistare per Indie-Eye. La prima all’Haus der Berliner Festspiele è stata un’esperienza indimenticabile, anche a causa di un incidente per fortuna non grave che l’ha interrotta di punto in bianco, aggiungendo pathos al pathos. Pubblico delle grandi occasioni, Tuttle a sorpresa sul palco prima della proiezione, proiezione – il film è un capolavoro tranciafiato – e coda con tutta la banda sul palco, così fitta che Lars Eidinger è rimasto ai bordi (immagino soffrendo come un cane). Al centro come la famosa roccia dell’Hunsrück, inscalfibile ed eloquente, lui, la memoria storica del cinema tedesco dai tempi di Oberhausen. La discussione è terminata perché un uomo accanto a Reitz è letteralmente carambolato giù dal palco come un birillo, preda di un improvviso svenimento. Dalla seconda fila centrale dov’ero ho visto il corpo scomposto, il saltello degli occhiali e ho temuto il peggio. Che non si è verificato. Ma è con questo episodio lancinante che è calato ex abrupto il sipario sulla presentazione di Leibniz, festa solenne per Edgar Reitz.

Un’altra sorpresa, meno bella ma grimaldella, è stata la visione di Hard Truths (2024), il ritorno di Mike Leigh all’Inghilterra contemporanea dopo i fastosi tuffi nel passato di Mr Turner (2015) e Peterloo (2020). Non un ritorno qualsiasi. La protagonista è Marianne Jean-Baptiste, indimenticabile in Secrets and Lies (1996) nonché compositrice per il successivo Career Girls (1997). Anche il titolo del film riffa la vecchia Palma d’oro, ormai splendida trentenne, che segnò il trionfo dell’immaginario sociologico di Leigh mettendolo al contempo in stand-by. Da sempre cineasta tradizionale nella forma ma rivoluzionario nel metodo, Leigh dopo il punto fermo di Secrets and Lies ha spesso alternato le sue classiche narrazioni umane più vere del vero a esperimenti variegati, negazioni puntuali della “maniera” sviluppata fino al 1996. Ecco allora che con Career Girls per la prima volta usa massicciamente il flashback, con Topsy-Turvy (1999) fa sia un film in costume, sia un fim-operetta sugli amati Gilbert e Sullivan, e con Happy-Go-Lucky una pellicola in cui, all’apparenza, manca il dramma e tutto va bene. All’apparenza. Perché il film con Sally Hawkins ed Eddie Marsan passato in concorso alla Berlinale del 2008 è la vera pietra di paragone per comprendere le ombre di Hard Truths.

La Pansy dell’ultimo film va ad arricchire la galleria dei personaggi femminili “devised by” Mike Leigh insieme alle proprie attrici protagoniste. Dalla finta acqua cheta Sylvia (Anne Raitt) di Bleak Moments (1971) passando per il ciclone Alison Steadman e i suoi personaggi frivoli ma non troppo (Nuts in May, 1976; Abigail’s Party, 1977; Life Is Sweet, 1990), il trio composto da Brenda Blethyn, Marianne Jean-Baptiste e Claire Rushbrook in Secrets and Lies, le amiche ritrovate Katrin Cartlidge e Lynda Steadman di Career Girls e la sconvolgente Imelda Staunton di Vera Drake (2004), Mike Leigh ha sempre mostrato un genio per la ritrattistica femminile. Il che non è sinonimo di empatia melodrammatica à la Cukor, Fassbinder, Almodóvar o Haynes. Le asperità di Naked (1993), che si apre con uno stupro, così come la messinscena impietosa di caratteri borderline, hanno suscitato critiche femministe e sospetti di cinismo, se non vera e propria exploitation. Hard Truths fa ben poco per smentire questo coro di giudizi impietosi: è il primo film all-black di Leigh, cineasta bianchissimo, la sua protagonista è negatività allo stato puro e la trama non svolta verso la speranza.

Personalmente, ritengo che i film di Leigh vadano lentamente appannandosi da trent’anni. Questo malgrado l’indubbia solidità di titoli come Another Year (2010) o Mr Turner. Gli anni Settanta delle Play for Today targate BBC non sono ovviamente ripetibili, né gli anni Ottanta thatcheriani fatti a pezzi in affreschi urbani viscerali e spietati come Meantime (1983) e High Hopes (1988), rispettivamente una delle primissime produzione del nascente Channel 4 e il primo titolo Thin Man Films creato insieme a Simon Channing Williams. Il compositore Andrew Dickson ha accompagnato Leigh per sei film, con la sua viola d’amore e temi tra l’ironico e il malinconico, partendo proprio da Meantime. Topsy-Turvy segna la rottura più evidente con un modus operandi ormai divenuto leggendario: budget più elevato, ambientazione storica, attenzione maniacale ai dettagli. Ma il Leigh che rapisce e sconvolge è quello sincronizzato con la contemporaneità, che trascorre settimane con gli attori per plasmare i personaggi sulla base di esperienze reali.

Distante anni luce dagli smussamenti retorici hollywoodiani o britannici in stile Richard Curtis, Leigh non ha mai fatto sconti con i suoi ensemble attoriali. La sofferenza è sofferenza, il trauma è trauma, il tic è tic. I suoi film grondano personaggi, anche in primo piano, con comportamenti vistosi, angolosi, fragili, talvolta nauseabondi. Allo stesso tempo non mancano momenti lirici, di speranza pura. Il finale di High Hopes, con Edna Doré che dice di essere sul tetto del mondo osservando i gasometri di King’s Cross. La zoppia quasi eroica di David Thewlis in Naked. I dialoghi in giardino che concludono Life Is Sweet e Secrets and Lies. Se non closure, almeno uno spiraglio. Un guizzo di vita. Hard Truths nega tutto questo con una programmaticità a tratti superflua, e pur dispensando qua e là leggerezza, non riesce a sconquassare davvero sul piano della sintonia umana. Un peccato, che ha tuttavia il pregio di mettere in luce ancora meglio uno dei titoli più ignorati di Mike Leigh: Happy-Go-Lucky.

Se la Pansy di Hard Truths vede tutto bigio e nulla è in grado di piegarla, la Poppy interpretata da Sally Hawkins è una inguaribile ottimista. Sempre col sorriso, sempre con la battuta pronta, mai un cruccio anche se le rubano la bici. In una delle scene più belle, Poppy vaga nella periferia londinese notturna e s’imbatte in un senzatetto che blatera in maniera incomprensibile. Lui è grande, grosso, mentalmente instabile e oggettivamente imprevedibile, ma lei non ha un briciolo di paura e gli parla senza batter ciglio, spinta da un’empatia che non è a sua volta follia o martirio, ma voglia reale di confrontarsi con l’altro. La stessa apertura che concede a Scott (Marsan), il suo istruttore di guida, con conseguenze – se non tragiche – almeno inquietanti. Se nel 2008 Scott poteva solo sembrare un disadattato razzista, omofobo e ammalato di solitudine, rivisto oggi fa suonare una batteria di campanelli, perché il personaggio incarnato da Marsan è lo specchio sputato dell’odierna tipologia incel, complottista, anti-tutto, credulona ed elettrice di populisti e dittatori che soprattutto negli ultimi anni abbiamo imparato a conoscere piuttosto bene. Sebbene non riesca a danneggiare la protagonista, basta la sua presenza – a volte grandioso innesco umoristico: enraha! – per cambiare di segno l’intero film. Oltretutto, c’è un chiaro parallelo tra Scott e uno degli scolari di Poppy, manesco poiché “inoltra” violenze domestiche. Da sorridente ritratto al femminile con tanto di esilaranti lezioni di flamenco, Happy-Go-Lucky diventa un film di denuncia sul maschilismo vittimista. E tra le righe, aggiungerei, anche se si tratta di un’impressione assolutamente soggettiva, fino all’allegro finale in barca vibra il sospetto che il nuovo fidanzato di Poppy, anche lui educatore, possa rivelarsi nocivo quando meno ce lo si aspetta.

Ecco allora un livello superficiale e uno profondo. Chiacchiere e sorrisi, balli scatenati al ritmo di Common People, letture confidenziali dei palmi come in Secrets and Lies o il rituale bröntiano di Career Girls, ma in filigrana c’è una minaccia latente, abissale, insanabile come l’ottimismo saltellante di Poppy. Due dimensioni che si toccano senza contaminarsi. Non c’è redenzione nei film di Mike Leigh, al massimo un colpo di fortuna, così come non c’è dannazione. Vera Drake finisce in carcere perché aiuta altre donne ad abortire, senza nemmeno chiedere un penny in cambio. L’espressione di incredulità e sconcerto quando parla con due carcerate cui è stata comminata la medesima pena, e che hanno sempre usato metodi ben più pericolosi dei suoi, è una daga in pieno petto. Attenta a dove vai, Drake, le dice la guardia-cerbera che incrocia lungo le scale. Dove deve mai andare? Da nessuna parte.

Titoli di coda di A Mug’s Game (1973), corto didattico sul gioco d’azzardo prodotto dalla BBC.

heimat anno zero

Anette Jünger e Kai Taschner in Stunde Null (1976) di Edgar Reitz.

Denk ich an Deutschland in der Nacht, ma anche in pieno giorno, con l’aria politica che tira, mi viene una di quelle angosce. Un anno fa scrivevo questo, e adesso nell’Est si aprono le urne, vasi pandorini, da cui usciranno percentuali da tregenda. In Turingia di sicuro, ma anche altrove, e il tema ovviamente sarà quali maggioranze, su quali compromessi agglutinanti, a spese di chi. Il muro tagliafuoco bipenne della CDU sta per crollare almeno a sinistra, chiamiamola sinistra, nei confronti del partito personale di Wagenknecht. Partiti del semaforo di governo non pervenuti, mentre le chiacchiere antimigranti sono ormai mainstream. Dopo sedici anni di Merkel, autentico lusso di stagnazione politica mentre il mercato – e il soft power teutonico – faceva il suo lavoro, adesso molti nodi verranno al pettine e il backlash culturale potrebbe essere stordente. Defletto, solo in parte, con qualche riflessione sull’ultranovantenne Edgar Reitz e gli albori del suo magnifico, colossale, Heimat audiovisivo.

La visione di Filmstunde_23 alla Berlinale m’ha fatto riscoprire la produzione reitziana degli anni Sessanta e Settanta, antecedente alla saga eterna dell’Hunsrück spezzettata in documentari, stagioni, film e dietro le quinte. Alla luce dei toni völkisch sempre più assordanti nella retorica politica tedesca fa un po’ impressione parlar bene di un colosso cinematografico (anche se ufficialmente di produzione televisiva) come Heimat, i cui episodi presentavano il titolo su un masso in aperta campagna spazzato da germanico vento. Questo è forse il motivo per cui Reitz, un tesoro nazionale come si direbbe Oltremanica, oggi è meno celebrato di quanto meriterebbe. Troppo tedesco? Non abbastanza woke? Ovviamente pinzillacchere, come applicare il filtro post-coloniale a opere medievali, ma è indubbio che Reitz, coideatore del celebre Manifesto di Oberhausen, abbia sempre lisciato il pelo all’anima tedesca. Coi modi critici e inizialmente sessantottini di un intellettuale preparato, ma pur sempre dell’anima tedesca si tratta, riscoperta e adorata in aperta campagna.

I primi episodi di Heimat, in un bianco e nero abbacinante che si tinge pian piano di colore, hanno un che di ancestrale. Lontanissimo da Syberberg così come dalle azzurre luci boreali di Riefenstahl, Reitz è forse il più classico tra i cineasti del Nuovo cinema tedesco. Gli manca lo slancio decostruttivo e godardiano dell’amico Kluge, al contrario di Herzog è centripeto, muove sempre verso il cuore della Germania, e i punti di contatto con la modernità parossistica di Fassbinder sono pari a zero. Solo Schlöndorff gli assomigliava quanto a spunti letterari alti e messinscena a modino. Ma nessuno ricorda, di Reitz, quel Cardillac (1969) tratto da E.T.A. Hoffmann. Edgar Reitz è Heimat, un colosso ultradecennale che ha cancellato e riscritto il concetto stesso di Heimatfilm, sottogenere Biedermeier anni Cinquanta che gemmò, in America, Tutti insieme appassionatamente. Die Trapp-Familie (1956) di Wolfgang Liebeineiner, tratto dall’omonimo memoir di Maria Augusta Trapp, è la quintessenza di quel Papas Kino (cinéma de papa, e pure un po’ nazi) contro il quale si scagliarono i firmatari di Oberhausen.

Al pari di Cardillac, anche Die Reise nach Wien (1973) è un film poco noto, eppure è il prologo vero della manovra di riconquista dell’Hunsrück, destinata a valere per la Germania tutta. Tratto dai ricordi della madre del regista, Il viaggio a Vienna parla di uno scanzonato… viaggio a Vienna compiuto da due donne, Toni (Elke Sommer) e Marga (Hannelore Elsner), mentre i mariti sono al fronte. Per quanto sia choccante dirlo, il film è una commedia nazista, nel senso che sia le protagoniste, sia i personaggi in cui s’imbattono, sono perfettamente in linea con la quotidianità del Reich. La vivono in un villaggio (Simmern, che esiste sul serio) dove le autorità militari hanno la faccia da schiaffi di Mario Adorf, e malgrado ascoltino volentieri per radio le esortazioni di Goebbels, non esitano a compiere atti illegali come la macellazione di un maiale senza permesso – inconcepibile ai tempi dello sforzo bellico. Ed è proprio grazie a un gruzzolo trovato per caso che le due amiche improvvisano il viaggio a Vienna, cercando di fare affari inevitabilmente fallimentari. Commedia scritta – ma non si sente – insieme a Kluge, Die Reise nach Wien ha il problema non da poco di essere piatta come la Landa di Luneburgo, zero risate se non a denti stretti e pensando all’oggetto misterioso che si sta guardando. Il film non banalizza né relativizza il Terzo Reich, ma cerca di indagarne la dimensione più periferica facendo leva sulle due inarrestabili protagoniste, circondate da uno stuolo di maschi decerebrati. Il finale, piuttosto klughiano, ha luogo dopo la capitolazione: un carrarmato alleato arriva nelle stradine del villaggio e resta bloccato in una manovra impossibile, sul cui fermo immagine scorrono i titoli di coda. A fare di Die Reise nach Wien il prologo dell’Heimat che verrà è sia l’ambientazione nell’Hunsrück, sia il cognome di Toni, Simon. Doccia fredda per chi si aspetta(va) un film hollywoodiano che mette in riga i buoni e i cattivi.

Reitz avrebbe voluto produrre subito dopo Der Schneider von Ulm, ma ci riuscì solo nel 1978, registrando peraltro un flop clamoroso. È la storia di Albrecht Ludwig Berblinger (Tilo Prückner), sartino con la fissa delle invenzioni a partire da quella del volo, che gli riuscì solo in parte. Celebre, in senso negativo, la sua fallita dimostrazione del 1811 davanti al re e altri dignitari, quando munito delle sue ali meccaniche piombò nel Danubio invece di volare sull’altra sponda. Il sarto di Ulm è a oggi l’ultimo progetto filmico narrativo di Reitz pre-Heimat e non-Heimat. Un film in costume costosissimo, allestito come un compitino e mal girato, che agli occhi degli spettatori degli anni Settanta dovette subire il confronto umiliante con Barry Lyndon. La metafora tra i primi tentativi rivoluzionari di ottenere la democrazia e il volo di Berblinger è telefonatissima, oltre che stilisticamente gelida. Ma prima del Sarto, prodotto a spizzichi e mozzichi tra il 1976 e il 1977, c’è il gioiello vero della filmografia di Edgar Reitz, Stunde Null.

L’ora zero è quella della Germania rosselliniana, anzi, ancora prima: sono i mesi dopo la capitolazione in cui il territorio tedesco, occupato dagli Alleati, era formalmente acefalo. Come scrive giustamente Matteo Galli nel suo Castorino su Reitz uscito nel 2005, tuttora la fonte italiana più autorevole sul regista, con “Ora zero, girato in sei settimane nell’estate del 1976, Reitz si avvicina ulteriormente al modello narrativo, al progetto estetico e all’assetto produttivo che otto anni più tardi darà luogo alla prima parte di Heimat”. A cominciare dalla fotografia in bianco e nero mozzafiato di Gernot Roll, reduce da una batteria di Tatort eppure molto più efficace di Robby Müller, ingaggiato per i colori sgargianti del Viaggio a Vienna. La sceneggiatura è a otto mani: Reitz, Karsten Witte, Petra Kiener e soprattutto Peter Steinbach, destinato a scrivere anche il frammento reitziano di Deutschland im Herbst (1978) per poi passare alla prima infornata di Heimat. La trama di Stunde Null sembra vergata su un tovagliolo: siamo in un paesino (Möckern) lungo la tratta ferroviaria che porta a Lipsia nell’estate del 1945, e gli abitanti attendono l’arrivo delle truppe sovietiche. Per due terzi del film non succede, sul piano diegetico, praticamente Null-a.

Ma questo niente è un nido pieno di roba buona. Innanzitutto, facciamo la conoscenza delle anime, stanziali o di passaggio, di questo non-luogo agglomeratosi attorno a un passaggio livello e alla casa cantoniera. C’è l’adolescente Joschi (Kai Taschner) che gira una giacca di pelle fregata agli americani e amoreggia con Isa (Annette Jünger), sfollata dalla Baviera. I due siedono e passeggiano lungo i binari come se fossero una cavedagna, un sentiero infinito nel paesaggio. Di treni neanche l’ombra. C’è il piccolo Torsten (Torsten Henties) sempre sorridente e in bicicletta, che sembra aggirarsi per il film come una macchina da presa vivente. C’è il vecchio saggio, c’è la vedova che nega il passato nazi del marito, c’è il voltagabbana di turno pronto a sventolare falci e martelli e c’è il polacco Motek che arriva trainando una giostra. La monterà nel villaggio, portando il circo nel nulla e facendo orbitare nella notte tutti i volti che abbiamo imparato a conoscere. E poi ci sono i soldati. I russi, che arrivano come unni, rubano, devastano, approfittano di Isa – l’unico momento oggettivamente drammatico del film, seppur costruito su ellissi e un unico, innocuo colpo di pistola. Nel finale, Joschi e Isa fuggono tra i boschi fino ad avvistare una jeep. Ma neanche gli yankee portano l’idillio: la ragazza resta a bordo e lui, col pretesto della giacca rubata, viene mollato tra la polvere della Germania in macerie.

Quasi una prova generale sia del frammento doganale di Deutschland im Herbst, sia dell’impatto visivo di Heimat (1984) prima del sesto episodio, Hermännchen, dove il colore prende il sopravvento, Stunde Null dimostra tutti i punti di forza di Edgar Reitz: la vicinanza empatica, la creazione di un microverso che va ampliandosi, la pazienza di un racconto lungo, potenzialmente infinito. Una serietà mai azzimata, distante anni luce dall’ideologismo di Kluge. Il tutto accompagnato e potenziato da movimenti di macchina maestosi e sempre diegetici, che sfruttano al meglio oggetti come il passaggio a livello, la tenda da circo e la giostra, oltre che da dialoghi asciutti e incisivi. Rispetto all’affresco claudicante del Sarto di Ulm, Stunde Null è microstoria à la Carlo Ginzburg (del resto siamo negli anni Settanta), avvolgente, immersiva, ipnotica. Pur nei limiti della finzione – le riprese, per dirne una, furono effettuate in Germania Ovest, a pochi chilometri dal confine con la DDR – questo film di Reitz, pressoché ignorato dal canone moderno, è un distillato di Heimat prima di Heimat, e molto semplicemente una visione di rara bellezza. Rara anche nella sua prospettiva periferica, tipica di Reitz, che sposta una tramina da Trümmerfilm lontano dalla città, calando il tutto in una dimensione paesana, smarrita, quasi primigenia. La Germania che non c’era (più, o ancora).

Dopo il patapùnfete del Sarto di Ulm, Reitz prese la rincorsa col documentario Geschichten aus den Hunsrückdörfern (1980) e da quel momento in poi piantò la tenda a Schabbach, salvo occasionali digressioni documentaristiche come Die Nacht der Regisseure, bizzarro tentativo in video di fare il punto sul cinema tedesco. Die andere Heimat (2012), prequel heimatiano in bianco & nero & Sehnsucht, è finora l’ultimo lavoro vero e proprio del regista di Morbach, vista la tenue precarietà di Filmstunde_23. Su Heimat si potrebbero scrivere enciclopedie, ma la cosa migliore resta sempre vederlo, rivederlo, e sperare che la smettano, quelli là, di scambiare un termine tedesco bello e intraducibile per una clava retrograda che nulla ha a che vedere con patrie, matrie e innocui macigni nell’erba.

Torsten Henties e Kai Taschner in Stunde Null.

Berlinali

Screenshot dallo streaming della Berlinale 74 per l’assegnazione dell’Orso d’oro alla carriera a Scorsese.

Quando nel gennaio del 2006 misi stabilmente piede a Berlino, il mio pensiero fisso era già al mese successivo, perché per la prima volta avrei avuto l’occasione di andare al festival. Ormai ci vado da quasi vent’anni, come pubblico e più spesso accreditato tramite Indie-Eye. In questa orecchia traccio un itinerario sghembo, assolutamente non rappresentativo, dei film che m’hanno scavato di più tra le pieghe del cervello e nei nervi ottici. Nessuno di questi titoli ha vinto il primo premio. Ho iniziato a frequentare la Berlinale in piena gestione di Dieter Kosslick, e col 2024 termina il non facile interregno Chatrian-Rissenbeek. Cresciuto con l’idea che dopo la Palma e il Leone venisse l’Orso, ora devo ammettere che questo terzo posto assoluto è più che mai traballante, anche se Berlino si conferma il primo festival di pubblico al mondo, dieci giorni durante i quali trovare i biglietti è spesso un’impresa e le sale sono sempre strapiene – a prescindere da quel che vi viene proiettato. Un risultato clamoroso che mette in ombra i consueti arbitri (circonflesso sull’ultima i) di selezionatori e giurie, nonché il costante calo delle prime mondiali – un fenomeno, quest’ultimo, che sta trasformando la Berlinale in uno sfavillante festival del riciclo.

Duemilasei. Il poster è sparato persino in copertina sulla miniguida alla Berlinale di Zitty, io non so chi sia Oskar Roehler ma Houellebecq lo conosco bene. Elementarteilchen (Le particelle elementari) è il primo film berlinalizio che mi fece friggere prima di approdare in sala. A colpirmi furono due cose: l’idea che un romanzo contemporaneo francesissimo venisse portato sullo schermo per vie crucchissime (produzione d’alto bordo di Bernd Eichinger), e la constatazione che anche in Germania esistesse uno star system. Alcune facce già note (Franka Potente, Moritz Bleibtreu), altre meno (Nina Hoss, Corinna Harfouch, Martina Gedeck, Michael Gwisdek, Christian Ulmen, Tom Schilling). Malgrado il film in sé non fosse epocale, la febbre per Roehler m’è rimasta per qualche anno, il tempo di vedere al cinema Lulu & Jimi (2008), rimasticazione senza vergogna di Wild at Heart, e due grotteschi schizzi autobiografici: Quellen des Lebens (2013) e Tod den Hippies! Es lebe der Punk (2015). Ho pure letto qualche suo romanzo, in particolare l’ottimo Herkunft (2011), spunto di Quellen des Lebens. Il maledettisimo sgarbato, sporco e cattivo di Roehler, spesso mal mutuato da Easton Ellis, è ormai ridicolo, e nella sua filmografia non mancano schifezze che pur di provocare finiscono per confondersi con la materia che trattano – tipo un film del 2018, di cui non cito nemmeno il titolo, tratto da un romanzo di Thor Kunkel, vicinissimo all’AfD.

Duemilasette. In concorso c’è The Walker di Paul Schrader, ma il mio cuore vola verso This Filthy World, teatro filmato a cura di Jeff Garlin che ci restituisce il one man show itinerante di John Waters. Non certo un gioiello della settima arte, ma per chi ama Waters questa testimonianza la dice lunga sulla sua capacità di sopravvivere anche in tempi di magra. Avevo visto A Dirty Shame (2004) in un cinemino parigino e dopo vent’anni il papa del trash deve ancora uscirsene con un nuovo film, anche se sta lavorando alla trasposizione del suo romanzo di debutto Liarmouth. Sapendo di essere ormai un aggettivo, anzi un mondo a parte (vedi titolo del docu), Waters capitalizza dai primi anni Ottanta la propria aura mitica con libricini e altre forme derivate di intrattenimento, ma nulla supera il suo talento naturale di stand-up comedian.

Duemilaotto. Happy-Go-Lucky di Mike Leigh, non nella rosa dei suoi film indimenticabili, ma ennesima dimostrazione di come l’autore britannico sappia raccogliere le sfide più disparate. Accusato di ripetersi con le sue storie popolane agrodolci, in presa diretta, schiacciate sulla contemporaneità, subito dopo la Palma d’oro Leigh fece un film di soli flashback (Career Girls, 1997), poi uno in costume su Gilbert & Sullivan (Topsy-Turvy, 2000). Analogamente, questo film delizioso dominato da Sally Hawkins arriva dopo il Leone d’oro e tenta una strada impervia, cioè quella della commedia senza inciampi. Happy-Go-Lucky di nome e di fatto. Leigh non sarà ricordato per questi esperimenti, ma la sua grandezza è fatta anche dal coraggio di alternare le mille variazioni di una formula perfetta a ribaltamenti traumatici della medesima formula.

Duemilanove. Schrader in gran forma – e la partita si chiude. Adam Resurrected, dal romanzo di Yoram Kaniuk, è una delle prove migliori dello Schrader autonomo. Sta lì con Hardcore, Light Sleeper, Auto Focus. Tema rovente (Shoah), messinscena sempre in bilico tra il sublime, l’infimo e il Jerry Lewis clown straccione. Jeff Goldblum a quattro zampe va digerito con calma.

Duemiladieci. Primo anno di accredito via Indie-Eye, con l’emozione delle proiezioni al Berlinale Palast delle otto di mattina per i film in concorso. Uno di questi è Der Räuber di Benjamin Heisenberg, storia criminale vera, e austriaca, ripresa dal libro di Martin Prinz. La pulizia del cinema di Heisenberg si tuffa nel sudore cutaneo di un maratoneta col vizio delle rapine. Un piccolo classico di cui nessuno si ricorda più.

Duemilaundici. Tutti a parlare di 3D, tutti a parlare di eBook. Un po’ come oggi, tutti a parlare di AI/IA/KI. Probabilmente a vanvera. Zitto zitto, Werner Herzog si fa spiegare come funziona una macchina da presa 3D e ottiene il permesso di addentrarsi nella grotte di Chauvet. Lezione autoesplicativa e ludica sull’uso sensato delle tecnologie, Cave of Forgotten Dreams è Herzog allo stato puro, egomaniaco ed esploratore, estatico e concretissimo. Il momento in cui gioca con la camera manco fosse un trenino appena ricevuto per Natale è una dichiarazione politica sulla libertà del documentario, sulla porosità dei suoi confini e soprattutto sulla necessità di non prendersi mai troppo sul serio. Brividi paleolitici.

Duemiladodici. Formatosi sotto la DDR, Andreas Dresen è tuttora uno dei più validi registi tedeschi, altalenante negli esiti ma sempre sincero. Il taglio politico può ricordare Ken Loach, ma con qualche tonnellata di ideologia in meno. Lo dimostra ad esempio il documentario Herr Wichmann aus der dritten Reihe, seconda puntata di un improbabile character study iniziato con Herr Wichmann von der CDU (2003). Dresen racconta la quotidianità di un giovane politico democristiano fino al midollo eletto in Brandeburgo, Bundesland dove la CDU non ha mai avuto vita facile. Empatici senza furberie né melassa, i due piccoli film su Wichmann vanno a comporre un trattatello sulla politica tedesca pre-AfD, e dimostrano che un documentario può anche non avere la schiuma alla bocca e lo schemetto pronto in stile Michael Moore. Altri tempi, davvero.

Duemilatredici. Philibert ha vinto la Berlinale nel 2023, ma anche nei vent’anni successivi a Être et avoir ha continuato a fare il suo lavoro di documentarista “di servizio pubblico”, puntuale, informativo e sempre attento al dato umano. Lo dimostra anche La maison de la radio, perlustrazione del Pentagono radiofonico francese, vale a dire Radio France. Non c’è argomento che Philibert non sappia rendere interessante.

Duemilaquattordici. Vedi alla voce Roehler, anzi peggio. Per un periodo sono cascato nelle trappolucce tese da Dietrich Brüggemann, tipo Renn, wenn du kannst (2010) o anche il buffo Heil (2015), ma Kreuzweg avrebbe dovuto valere come un avvertimento chiaro. Esempio da manuale di virtuosismo fumogeno, questo film antireligioso mutua la struttura per tableaux dell’esordio Neun Szenen (2006) e punta all’applauso intellettualoide. Durante la pandemia, Brüggemann si è fatto riconoscere come mente (?) di un gruppo di artisti contrari a qualsiasi misura di contenimento, nel nome della libertà (?). Punti interrogativi che diventano puntini di sospensione.

Duemilaquindici. Forse il film berlinese per eccellenza degli anni Duemila, che regge anche a una seconda visione dopo lo choc della prima. Choc motivato dal fatto che il film, narrativo e in continuo movimento nella notte di Kreuzberg e Mitte, è un unico piano sequenza di più di due ore senza trucco né inganno. Brüggemann, hold my beer! Ma a rendere speciale Victoria, oltre a questo escamotage, è la credibilità di un flusso d’incoscienza tra balli, flirt e rapine sgrause, capace di rappresentare lo spirito di una città davvero libera e manigolda. Sono passati nove anni, e il clima che trasuda dal film è già fantascienza.

Duemilasedici. Primo film berlinalizio che vidi con Yassien, per giunta all’Admiralpalast e in presenza dell’amatissimo Terence Davies. A Quiet Passion segna il ritorno di Davies alla sceneggiatura dopo molti anni, e a posteriori vale come una prova generale del suo ultimo capolavoro, Benediction (2021). Malgrado le tante crinoline e una perfezione formale che può distrarre, quel che conta è la disperazione che pulsa sia in Emily Dickinson, sia nell’occhio che la sta filmando.

Duemiladiciassette. Anno epocale per Raoul Peck, che sbarca a Berlino con un film di finzione sul giovane Marx e con I Am not Your Negro, magnifico documentario su James Baldwin. Baldwin chi? – una domanda grossomodo lecita fino al 2017, che questo film presentato nella sezione Panorama Dokumente (forse la migliore di tutto il festival) ha definitivamente messo fuorilegge. Politica e attivismo per i diritti civili allo stato puro, con un recupero di materiale audiovisivo poi divenuto virale. Ricordo extra di questa Berlinale: la visione di un film davvero nuovo per linguaggio e impostazione drammatica, Félicité di Alain Gomis.

Duemiladiciotto. Riesco a intervistare Szumowska & Englert, con Twarz in concorso, ma il colpo di fulmine avviene tra le corsie di una Metro teutonica: In den Gängen di Thomas Stuber, da un racconto di Clemens Meyer. Se c’è un momento in cui Franz Rogowski e Sandra Hüller fanno il grande salto, è questo, grazie anche al sostegno del coprotagonista Peter Kurth. Stuber mai più così in forma nel portare sullo schermo la sua Lipsia dolente e proletaria. Una delle prime scene, il ballo dei carrelli elevatori a suon di Bach, è roba da pianto dirotto come l’utilizzo del medesimo brano all’inizio di After Hours, in un contesto diverso ma pur sempre lavorativo. Lo sapevate che il meccanismo pneumatico di un carrello imita il rumore del mare?

Duemiladiciannove. Un altro s-consiglio, che però a suo tempo mi rimase in testa molto più dei bei film. Der goldene Handschuh di Fatih Akin, da Heinz Strunk. Prima di trasferirmi in Germania, per me Akin rappresentava il meglio del cinema tedesco contemporaneo. Dopo aver visto questa celluloid atrocity senza ironia decisi di non vedere più film fatti da lui. Nel 2023 ho infranto il comandamento andando a vedere Rheingold – mannaggia a me. In compenso, sempre nel 2023, infrangendo il von-Trier-ban, ho visto la terza stagione di Riget e non me ne pento. Chiusa parentesi. Il filmazzo di Akin sul serial killer amburghese, malgrado la scenografia impeccabile, è un esempio perfetto di come non vada inscenata la violenza al cinema, cioè con un livello di laidume che pervade lo sguardo in maniera acritica, forse complice. Uno dei film più brutti mai visti in vita mia, e mi si perdonerà l’estrema personalizzazione.

Duemilaventi. Ormai rarissimi dato che con la serie Walker si è abbonato alle gallerie d’arte, i film “narrativi” di Tsai Ming-liang aumentano di valore col passare del tempo. Rizi è – finora – l’ultimo di questa maravigliosa graffa, e mantiene intatte tutte le ossessioni, tutte le compulsioni, tutte le squisite ripetizioni del cinema di Tsai, a cominciare dall’eterno protagonista Lee Kang-sheng. In sala, contai le inquadrature (quarantasei). Quanto di più vicino al porno ci possa essere nel cinéma d’auteur come lo intendeva Bazin.

Duemilaventuno. Festival virtuale azzoppato dalla pandemia, sfida non indifferente per Chatrian e Rissenbeek. Il programma è quel che è ma qualche perla c’è, come Una película de policías di Alfonso Ruizpalacios, pseudodocumentario che lancia domandone feconde a noi spettatori. Nella sua frammentarietà, quasi un saggetto sulla metamorfosi del cinema in questi anni di crisi in senso lato.

Duemilaventidue. Dopo tante incertezze, una certezza: Ulrich Seidl. Con Rimini, l’autore austriaco porta alla Berlinale la prima parte non dichiarata di un dittico destinato alla conclusione – choc – con Sparta. In assoluto uno dei migliori film narrativi di Seidl, e forse l’unico al mondo a captare la riviera romagnola senza alcun senso d’inferiorità rispetto a Fellini. La riviera d’inverno come sfondo di un’umanità sfatta e finita.

Duemilaventitré. Qui l’Orso dorato ci sarebbe stato di brutto, ma è comunque un bene che l’abbiano agguantato Nicolas Philibert e i suoi matti. Con Roter Himmel, Christian Petzold torna a una forma smagliante che non si vedeva da Yella e sforna un gioiello che parla di letteratura, editoria e altre miserie. Facendo ridere e piangere.

Duemilaventiquattro. Settantaquattresima Berlinale appena finita, impressioni troppo fresche, ma è impossibile sbagliare segnalando quello che passerà alla storia come l’ultimo film di Edgar Reitz, Filmstunde_23. Qui si apre, potenzialmente, una parentesi lunga come un’enciclopedia vecchio stile su Heimat. Ma forse conviene fare solo un commento di superficie. Con la sua serie infinita, tre “stagioni” e mille bellissimi rivoli, Reitz utilizzò un termine, Heimat, dalla chiara accezione romantica, salvandolo dalle grinfie dell’ideologia nazi e dal genere conciliante degli Heimatfilme. Ora, nel 2024, anno di rischiosissime elezioni a iosa, Die Heimat è il nuovo nome di un partito neonazi fondato nel 1964, la merdace NPD. A questo punto, alas, siamo (di nuovo) arrivati.