raw.

Julia Ducournau, classe 1983, ha vinto il festival di Cannes portandosi a casa – per la prima volta nella storia – una Palma d’oro tutta per sé. Nel 1993 Jane Campion aveva dovuto smezzarla con Chen Kaige. A sconvolgere in positivo non è solo la decisione della giuria (che arriva con mostruoso ritardo rispetto al resto della galassia), ma anche e soprattutto il fatto che Ducournau consideri The Texas Chainsaw Massacre un capolavoro. È una di noi. La maledizione dei Dardenne e dei Bille August pare finalmente esorcizzata.

Titane, per ora, è solo un trailer o una visione per pochi eletti. Sono invece disponibili le prime fatiche di Ducournau, vale a dire il corto Junior e Grave (titolo internazionale: Raw), disponibile su Amazon Prime. Va detto che Raw non traduce Grave, e grave significa grave, tant’è che nel film la protagonista a un certo punto afferma “C’est grave” prima di montare il compagno di stanza. Il titolo inglese cerca la scorciatoia per riferirsi al tema della pellicola, vale a dire il cannibalismo.

L’autrice è sinceramente affascinata e attratta dal binomio natura/cultura, dal cortocircuito tra il biologico e l’innaturale, tra l’istinto e il “contro natura” (inesistente). Uno degli aggettivi che usa più volentieri parlando dei film horror prediletti e in particolare di Cronenberg è “organico”. Come sottolinea Michele Faggi nella sua articolata recensione di Grave, non siamo certo dalle parti di Deodato. Cannibali non sono gli altri, i selvaggi, cannibale è la protagonista Justine (Garance Marillier), cannibale [spoiler] è la sua famiglia da parte di madre [fine spoiler], cannibali siamo noi spettatori. La prospettiva include, non tira linee. Non c’è othering, piuttosto una enorme schwa sul quale fa perno tutta la potenza divorante del film.

Ari Aster ha girato Hereditary un anno dopo Grave, che forte di questo vantaggio si qualifica come uno degli horror moderni più coraggiosi nello spostare l’origine del tabù all’interno della famiglia. Ma dai primi film di Ducournau emerge soprattutto un elemento di body horror che è impossibile non ricollegare a Cronenberg e al suo approccio accademico al genere truculento. Junior (sempre Marillier) è una maschiaccia in piena metamorfosi… destinata a uscire dal bozzolo in forma di leggiadra femminuccia. Non prima di essersi squamata, letteralmente spellata come una matrioska di carne, e aver secreto nel processo una sorta di liquido acquoso. In Grave, le prime disavventure di Justine, nomen omen, comprendono un’eruzione cutanea con prurito al cubo. Più tardi fisserà il suo compagno di stanza intento a giocare a calcio con uno sguardo da Alex in Arancia meccanica, e il sangue al naso. La protagonista di Titane, a quanto pare, perde olio motore dopo essere stata messa incinta da una Cadillac. Corpi femminili in transito verso corpi nuovi, nuove prese di coscienza.

L’aggancio di Ducournau con Cronenberg senior è indubbio. Nel video in cui pesca i dvd preferiti, la regista confessa di piangere ogni volta che vede La mosca. Sono i tic di Goldblum sotto il mascherone, le sue riflessioni a freddo sull’essere uomo & insetto a colpirla. Come i bimbi di The Brood, o l’eccitazione per il metallo e i cerchioni in Crash. Nulla di nuovo per l’appunto, ma erano anni che lo sguardo di Cronenberg sul mondo organico e le sue pulsioni non veniva ripreso con tale efficacia. Lo stesso Brandon Cronenberg, con Antiviral (2012) e soprattutto con l’eccellente Possessor (2020), non disdegna l’idea del body horror ma tende a spostarlo a un livello cerebrale, con immagini astratte più vicine a Under the Skin che ai classici del padre. Ducournau, dal canto suo, ama i flash sulla carne putrefatta che aprono il film di Tobe Hooper (e in Grave li scimmiotta, facendo vagare le due protagoniste nel ripostiglio della facoltà), ama Drag Me to Hell (2009) di Sam Raimi e la sua choccante sincronia con la strega invece che con la protagonista, ama il Cronenberg di genere – e apprezza pure certe zampate di James Wan.

Grave riesce comunque a divincolarsi dall’accusa di prodotto derivato. Julia Ducournau sceglie di ambientare il film tra i casermoni di una facoltà di Veterinaria non dissimili dagli edifici che si vedono nei primi due film di Cronenberg, ma la messa in scena genera un immaginario a sé stante, contraddistinto da quadri puliti, campi lunghi rivelatori, una nettezza che non si scompone nemmeno quando piovono secchiate di sangue (omaggio a Carrie) o ne vengono lanciate di vernice blu (anticamera a una scena originalissima). Forse il film regge meno quando pizzica le corde nerd di Welcome to the Dollhouse (1995), e soprattutto nel proporre uno strano zigzag nell’orientamento sessuale del coprotagonista maschile (Rabah Naït Oufella). L’elemento familista è invece scardinante, e per certi versi fa risuonare di più il mondo di Bellocchio rispetto al cinema di genere. Certo, con Sangue del mio sangue (2015) lo stesso regista piacentino aveva messo in chiaro che anche lui, volendo, può parlar di vampiri. Ma il Bellocchio virale è quello della famiglia come destino e buco nero, linfa e veleno. Grave gravita a queste latitudini.

L’ultima inquadratura di Raw è Cronenberg allo stato puro. Una camicia che si apre, e rivela. Immagine casalinga, innocua anche perché inscenata al tavolo della colazione, ma capace di evocare sia la svestizione di Samantha Eggar in The Brood, sia quella di Roy Scheider nel Pasto nudo (1991). Vedremo, in Titane, quanto c’è di ballardiano, quanto di Winding Refn, quanto di Tsukamoto – nella speranza che non ci sia nulla di tutto questo. Che Julia Ducournau continui invece a mangiarci con gli occhi.

la casa della pelle

“I am Adrian Tripod, the director of this place, the House of Skin”. Inizia con queste parole il secondo lungometraggio di David Cronenberg, Crimes of the Future, produzione canadese anno 1970 avente come protagonista il fenomenale Ron Mlodzik. È notizia degli ultimi giorni che Cronenberg girerà in estate, in Grecia, un film di fantascienza e transumanesimo con lo stesso titolo. Crimes of the Future.

Impossibile sapere in anteprima quanto di nuovo ci sia in questa carne, e quanto di antico nella trama sci-fi fatta trapelare. I dettagli parlano di un futuro in cui gli umani si stanno evolvendo in direzione sintetica, ammalandosi – o arricchendosi – a causa della “Accelerated Evolution Syndrome”. Addentellati scarsi, quindi, con la vecchia trama incentrata sulla Antoine Rouge’s Malady di natura venerea, che produce schiume e decima le femmine di homo sapiens sapiens. Resta l’elemento, cronenberghiano per antonomasia, della metamorfosi postumana. Corpi che gemmano nuovi organi spesso del tutto inutili.

Il titolo tira comunque in ballo un tema vecchio quanto il cinema, ovvero il ritorno dei cineasti sul luogo del delitto. Un bell’articolo fa una sintesi efficace saltabeccando da DeMille a Hitchcock, fino ad Haneke. L’autoremake come genere autoriale in transizione, alimentato da motivi sempre più raffinati. Se all’inizio si trattava di svecchiare una storia aggiungendoci il colore e qualche trucco in più, ecco che la ripetizione diventa via via un modo per scavare di più nella storia e nei suoi meccanismi (Hitch) o un gesto concettuale vuoto (Haneke), il cui unico contenuto è evitare l’appropriazione da parte di un collega anglofono. Cronenberg sostiene di avere un “conto in sospeso col futuro”, e se non è mera provocazione non può essere un caso che per tornare al cinema dopo sette anni (e un romanzo) abbia scelto proprio il titolo del suo primo capolavoro, un gioiello trattenuto e misterioso di body horror senza effetti speciali, eppure, rivisto oggi, ancora perverso, sfacciato, inquietante.

Nuovo film, vecchio titolo insomma (e una sinossi da delirio immediato del fandom). Un intento zigzagante che assomiglia, sempre a scatola chiusa, all’imminente progetto lynchiano Wisteria / Unrecorded Night. Proprio in questo mese di maggio che potrebbe segnare un anno esatto di chiacchiere meteorologiche, Lynch dovrebbe tornare sul set per una serie prodotta da Netflix. I segnali, al solito sibillini (se non farlocchi), puntano nella direzione di un Twin Peaks senza Twin Peaks. Forse un prosieguo sbilenco delle vicende di Richard & Linda accennate nel diciottesimo episodio della terza stagione. Del resto, nel diciassettesimo abbiamo assistito alla fine di Twin Peaks per come la conosciamo, cioè all’annullamento della morte di Laura Palmer aprendo Fire Walk With Me come un file prestampa in attesa delle ultimissime correzioni. Uno stratagemma che consentirebbe peraltro di saltare a piè pari Mark Frost e i suoi plottini a tutto tondo. Mossa rischiosa – vedi l’autarchia assoluta ma poco virale di Inland Empire. Nuovo titolo, vecchia trama tra nuove trame?

Nell’attesa gioiosa di una cornucopia di cinema al cinema appena le circostanze lo permetteranno, non ci resta che recuperare, rivedere, rigodere. E i primi due film di Cronenberg si prestano a meraviglia. I sessanta minuti di Stereo (1969) sono molto più di un film studentesco girato con pochi mezzi: bianco e nero, no suono in presa diretta. L’ambientazione è l’unico effetto speciale, e che effetto. Ci troviamo in un’area modernissima, isolata, di enormi edifici (università, ministeri, cliniche?), che sul momento ricorda l’architettura suburbana di Arancia meccanica. Solo che Kubrick è arrivato dopo. Accompagnato dalla litania di una voice over che sembra recitare un paper accademico, il film esplora il legame tra telepatia ed erotismo. Una manciata appena di personaggi, capeggiati dal queerissimo Mlodzik, e la netta sensazione che lo spettatore sia parte dell’esperimento. Malgrado alcune inevitabili rigidità, un esordio come un big bang.

Con Crimes of the Future (1970) arriva il colore, la macchina da presa si scioglie, il suono resta scollegato dalle immagini – nei fatti, è un secondo film muto – ma alla voce narrante di Tripod si aggiunge un bruitage distorto, subacqueo, quasi un microfono tra i succhi gastrici. La trama è un concentrato dell’immaginario di Cronenberg, e al contempo rispecchia la libertà choccante degli anni Settanta. Una peste provocata dai “cosmetici contemporanei”, nuovi organi che spuntano come sistemi solari nel cosmo del corpo, dita dei piedi mutanti, sfere che se toccate instillano “perverse multidimensional images”, una moria di donne cui un gruppo di “pedofili eterosessuali” cerca di porre rimedio studiando un sistema di induzione prematura della pubertà – e rapendo bambine. Il finale è una lezione su come si possa osare molto senza cadere nelle due trappole opposte, cioè la retromarcia codarda o l’abiezione imperdonabile.

Ambientato nello stesso, eloquentissimo universo architettonico di Stereo, Crimes of the Future contiene elementi disturbanti che è difficile scrollarsi di dosso. L’io narrante, a un certo punto, passa alla terza persona. Venti minuti di “Oceanic Podiatry Group”, ovvero incontri a due – a un passo dal porno bdsm podofeticista – in cui si cerca di ricostruire la “storia genetica dei piedi”. Smalti rossi su unghie maschili, schiumine commestibili secrete da capezzoli. Per il Cronenberg degli inizi il corpo è in transito come la sessualità. Le teorie sono inventate, ma l’obiettivo constata la dimensione fisica senza commento né giudizio. “A novel sexuality must evolve for a new species of men, an emergent genetic biochemistry for a most innovatively reproductive form of life”.

Il nuovo Crimes of the Future sfoggia la prima sceneggiatura originale di Cronenberg dai tempi di eXistenZ (1999). Crimes of the Future (1970) è ambientato nel 1997. Date irrilevanti, visto che i suoi film mantengono un’attualità prodigiosa che non ha nulla a che vedere col profetico o con la facile etichetta del body horror. Come i romanzi di Ballard, scavano nel presente e non stanno mai fermi. Sono pelle sempre diversa, carne sempre fresca.

wishlist immaginaria

Philip Ridley non pubblica romanzi dal 2005. Questa lista di libri che non esistono ma sarebbe bello se esistessero non può che cominciare con l’autore di Crocodilia, Gli occhi di Mr. Fury e Vinegar Street, personalità morrisseyana ed eclettica che in termini quantitativi continua a dominare i miei scaffali di narrativa. I suoi film, da The Reflecting Skin (1990) a Heartless (2010), sono coraggiosi e disturbanti, ambientati in un mondo fatto di minacce, perversioni, gioventù e bellezza selvaggia. Oggi si direbbe queer. Ridley ha la rara capacità di calarti in questo mondo con un’inquadratura, un paragrafo, due battute d’un copione. Negli ultimi anni si è dedicato solo al teatro, e annualmente pubblica una nuova pièce con la puntualità d’una Nothomb. Alcune (The Pitchfork Disney, Leaves of Glass, Feathers in the Snow) sono straordinarie, ma senza l’esperienza diretta della performance manca sempre qualcosa. Sul fronte letterario, Ridley ha pubblicato molto per un pubblico giovane, e il suo ultimo romanzo Zip’s Apollo è per ragazzi. La speranza che torni a scrivere letteratura scapestrata e scapigliata è l’ultima a morire.

Nel 2017 m’incaponii per portare in Italia Thomas Melle, l’autore di Die Welt im Rücken (Rowohlt). Invano. Già pubblicato senza fuochi d’artificio nel 2015 da Fandango (Sicario, or. Sickster, trad. Fabio Lucaferri), Melle è uno di quegli autori che meritano una seconda chance. Oltretutto, bisogna prenderlo quando è in buona. Die Welt im Rücken è un testo anfibio, tra autobiografia e visione allucinata, che parla di bipolarità. La sua. Certi brani mi fanno piangere a comando. Anche Melle è ormai principalmente autore teatrale, e ogni tanto traduce dall’americano. 3000 Euro è un altro suo ottimo romanzo, ancora inedito in Italia, ma Il mondo in groppa farebbe sfracelli con la giusta promozione e la presenza magnetica dell’autore, che non sai mai se ti vuole abbracciare o mollarti un cazzotto. Mi piace pensare che abbia un capolavoro in canna.

Cronenberg dovrebbe tornare dietro alla macchina da presa proprio quest’anno, con un vecchio script à la body horror e il corpo allenato di Viggo Mortensen (peraltro già protagonista del primo lungometraggio di Philip Ridley). La notizia è buona, ma lo è anche lo strano secreto letterario che ci ha propinato poco prima di Maps to the Stars, Consumed (2014). In molti casi, il passaggio alla letteratura da parte di cineasti famosi è poco spettacolare se non marginale (vedi Fountain Society di Wes Craven), ma in Consumed emerge il lato più chirurgico e accademico di Cronenberg, anche se la trama sovraccarica sembra a tratti un bloc notes con spunti e suggestioni – a cominciare dalla Corea del Nord, in pieno hype crescente prima della presidenza Trump. Una seconda prova sarebbe un evento, altro che Tarantino transmediale.

Un appello a Iperborea. Il norvegese Erlend Loe ha alle spalle una produzione altalenante, ma almeno due romanzi con protagonista Andreas Doppler, Vita con l’alce (trad. Cristina Falcinella, 2007) e Volvo (trad. Giuliano D’Amico, 2010), sono da antologia per i tocchi surreali e amabilmente nerd. Da alcuni anni non si traduce più nulla, sebbene l’elenco dei romanzi, a detta di wikipedia, sia in crescita. Che si traduca! Discorso più tristo per il finlandese Kari Hotakainen, autore tra l’altro di Via della Trincea (2009) e La legge di natura (2015), entrambi tradotti da Nicola Rainò. Sembra fermo, Kari, speriamo non sia così.

L’americanissimo (di provincia) Mitch Cullin rischia di passare alla storia come un pony monotrucco, grazie all’indimenticabile A Slight Trick of the Mind (2005, tradotto da Giovanna Scocchera per Giano). Il precedente Tideland (2000, portato sullo schermo da Terry Gilliam) lo colloca automaticamente nei pressi di Philip Ridley per immaginario e tensioni sessuali latenti. Con la differenza sostanziale che Cullin è meno ossessivo, buio, e ha saputo affrontare il proprio orientamento sessuale con discreti risultati in UnderSurface (2002). Da molti anni non si fa sentire, e gli ultimi progetti lasciano a desiderare. Un peccato, perché con Trick ha dimostrato di saper rimasticare un mito altrui (Sherlock Holmes) senza cadere nel mero parassitismo.

Bini Adamczak l’ho tradotta nel 2018 per Sonda, il mio editore del cuore da quando ho cominciato a fare seriamente questo lavoro. Il suo libretto sul comunismo raccontato ai giovini è un grimaldello pazzesco, che prima ti dà uno zuccherino – con tanto di illustrazioni – e nella seconda parte si tuffa in un’argomentazione alta, nient’affatto adatta a giovini lettrici, tanto complessa quanto vibrante. Bini è comunista, e malgrado questo aggettivo sia ormai fuori dal tempo e dallo spazio, riflette una fede ideale ancora capace di generare contenuti affascinanti, motivanti. Belli. Sono anche convinto che questo suo approccio politico nel senso profondo del termine, da agit-prop instancabile, troverebbe una chiave congeniale in ambito lgbt+. Da bini mi aspetto un pamphlet sull’identità trans* di quelli che ti entrano sotto la pelle e te la cavano.

Sempre Sonda, editore del cuore non a caso, diverso attivismo. Doglands (2011) di Tim Willocks, tradotto da me l’anno seguente, è forse il libro che amo di più tra tutti quelli che ho riscritto in italiano. È antispecista senza il ditino alzato, una storia di cani che va oltre l’aspetto favolistico o da novella esemplare. Piacerebbe anche a chi legge volentieri storie di gatti o gabbianelle. È universale, mozzafiato, empatica, e l’autore vi infonde il respiro epico e hard boiled di altri suoi romanzi. Purtroppo, il seguito annunciato anni fa deve ancora vedere la luce. DogLines dovrebbe chiamarsi, strizzata d’occhio a Chatwin nel nome della libertà. Noi si aspetta (poco) pazienti.

Se c’è un autore italiano che mi manca, in forma di libro, anche se non è quello il suo medium principale, questo autore è Spiro Scimone. Insieme a Francesco Sframeli ha fondato quasi trent’anni fa una compagnia teatrale che va esperita, come tutte le compagnie teatrali, a teatro. Han pure fatto un film, Due amici (2002), gradevole bizzarria nel panorama cinematografico nostrano. Al contrario di Ridley, però, i testi scarni di Scimone, i suoi ping pong laconici e lapidari rivivono sulla pagina acquistando un’autonomia insperata. Beckett? Diciamo Beckett. E anche un pizzico di Ionesco. Ubulibri li ha pubblicati almeno fino alla Busta (2006), poi basta.

Mi piacerebbe poi, ma potrei anche dirglielo di persona, che Giuliana Olivero tornasse a scrivere. Il suo tocco abrasivo, evidentissimo nel Calcio di Grazia (Dalai, 2002), ha saputo adattarsi persino al genere “giallo regionale” con La confessione (END, 2014). A suo tempo mi disse di voler scrivere un secondo giallo ambientato nel mondo bovino delle rèine, le vacche da combattimento valdostane. Che poi non combattono mica. Surrealtà, quiete montana e affari sporchi. Un colpaccio assicurato che merita solo di espandersi via word processor.

Due dei libri che letto più voracemente negli ultimi anni sono delle liste. Quella stilata di Christopher Fowler dei “forgotten authors”, uscita in due tempi e formati diversi. E quella, scoperta di recente, dello sfrontato Frédéric Beigbeder, che nel 2011 pubblicò un “primo bilancio dopo l’apocalisse“. Entrambe idiosincratiche e opinabili, ma ricchissime di spunti. Per dirne una, dopo aver letto la classifica dei cento libri prediletti da Beigbeder mi sono riletto il vincitore, American Psycho, e gli ho dato ragione quasi a ogni pagina. Ecco, dovrebbe rifarlo questo giochino. O aggiornarlo un minimo, riflettendo sugli ultimi dieci anni. Fossi in lui, che di pochissimi autori arriva a citare due titoli, arriverei a tre aggiungendo a The Atrocity Exhibition e Crash Miracles of Life (2008), molto più di un’autobiografia ben temperata scritta da un malato terminale su suggerimento del medico curante. E qui il desiderio d’encore sbatte contro un muro, perché Ballard è morto.