ciò in cui crede

Edizione pamphlet (1968) del racconto omonimo, dettaglio modificato della copertina.

Anni fa avevo un sito su xoomer, e c’è ancora. Lo spazio gratuito c’è ancora. È come l’ftp di angelfire che uso da vent’anni come backup dei lavori in corso. Su xoomer ho cancellato tutto, resta solo questa bolla d’internet all’interno di virgilio, ma una pagina è tuttora consultabile. Questa. What I Believe (1984) è la dichiarazione d’intenti che mi fece innamorare di Ballard negli anni Novanta, e dopo quarant’anni il suo fascino furbesco e perverso è grossomodo intatto. Sebbene non sia certo una rarità, il testo compare nella prima sezione di Selected Nonfiction 1962-2007, Statements, ed è un indubbio argomento di vendita per questo tomo a cura di Mark Blacklock che rilancia gli scritti corsari ballardiani.

Al momento di stendere questa orecchia non ho informazioni esatte circa lo stato dei diritti di traduzione. So che sono in capo a Wylie – in bocca al lupo, cari editori! – e James Graham Ballard è sicuramente uno di quei nomi che non passano inosservati, a prescindere dal tipo di testo. Il corposo volume edito da MIT Press rappresenta un seguito e al contempo un reboot, un ripensamento critico di A User’s Guide to the Millennium (Fine millennio: istruzioni per l’uso, 1996). Rispetto al libro tradotto da Antonio Caronia per i tipi di una casa editrice che è meglio citare via asterischi, Selected Nonfiction copre innanzitutto gli undici anni che separano la pubblicazione della prima raccolta dall’ultimo articolo uscito a nome Ballard. Il criterio di selezione è più rigoroso, non prettamente tematico come nella User’s Guide, e la mole è superiore, con apparati bibliografici pressoché assenti dall’edizione del 1996, dotata solo di un indice dei nomi. Solo in parte sovrapponibili, le due raccolte hanno una propria autonomia. Messe insieme genererebbero un fungo nucleare.

Ballard è un aggettivo, una moda hipster, una chiave di lettura delle cose intese proprio come cose, corpi inclusi. Scrittore consapevolmente tradizionale, sul finire degli anni Sessanta attaccò la spina della chitarra-tastiera e come un Bob Dylan della fantascienza decise di sconvolgere il pubblico con una sterzata improvvisa. L’aggettivo ballardiano scaturisce dai testi confluiti in The Atrocity Exhibition e dalla triade di romanzi anni Settanta Crash – Concrete Island – High-Rise, iniziatori di uno sguardo acuminato e brutale sulla contemporaneità: profetico nel delineare lo spasso della psicopatia, programmatico nel voler provocare in maniera, a volte, più immaginata che sinceramente viscerale. Lo schematismo delle sue visioni si evince benissimo dagli ultimi romanzi, una lasca tetralogia, Cocaine Nights – Super-Cannes – Millennium People – Kingdom Come, dove una lingua più cheta mette in scena le assurdità del tardo capitalismo, il populismo rampante, la voglia di guru, il fascino della violenza e dell’irrazionalità – meglio se accoppiate. Le sue esperienze nella Shanghai occupata dai giapponesi, materia di due romanzi e infinite digressioni, lo hanno reso materia da Spielberg, trainando nel mainstream tutta la sua produzione. Ballard non ha mai avuto paura della pagina bianca e i suoi scritti d’occasione, o su commissione, hanno la medesima dignità dei titoli da opac.

Per capire quanto sia ancora solida la sua influenza, basti citare il progetto di Brandon Cronenberg di trasformare Super-Cannes in una miniserie. Come se Infinity Pool (2023) non fosse già, in spirito, una fantasia ballardiana vicinissima alla realtà, cioè un ritorno all’imbarbarimento malgrado, anzi per via, della gentrificazione. Ballard lo aveva già preconizzato nel 1962, nel saggetto Which Way to Inner Space? uscito su New Worlds prima ancora della gestione Moorcock. Pur amando la fantascienza come una ditta in cui si sentiva impiegato – e al contempo sindacalista – Ballard ha sempre irriso la produzione classica, escapista, tutta navicelle spaziali e pianeti esotici. Per lui il viaggio vero era quello nell’inconscio, non verso l’esterno ma nelle nostre stesse viscere cerebrali. Detto oggi è scontato, forse banale, maledettista come gli eccessi grafici cui si abbandona spesso Ballard, ma all’epoca questo cambio di prospettiva valse come il manifesto di una Nouvelle vague fantascientifica che voleva non distrarre, ma scardinare. Che parli di incidenti mortalmente erotici, dei genitali dei vip o della bellezza di lamiere e videoregistratori, Ballard è sempre un autore di fantascienza che, come Werner Herzog, scruta la Terra come se fosse un altro pianeta. A partire da Vermilion Sands, molte delle sue fissazioni, aeroporti-città, gated communities, centri commerciali ipertrofici e villaggi turistici da tregenda, sono ormai state superate in corsa da quella che chiamiamo realtà. Sono topografia odierna. La nostra acquiescenza nei confronti di questi fenomeni rende quasi superflue alcune trame ballardiane, trasformando il profeta in cronista, il monito in constatazione dell’ovvio. Se come in Futurama Amazon si espande fino a inglobare l’universo intero, cosa è l’uno, cosa è l’altro?

Recensore seriale, adorabilmente ripetitivo, Ballard ha sempre messo in campo i propri chiodi fissi. Alcuni incomprensibili al giorno d’oggi, come quello per Salvador Dalí, che lui chiamava Dali così come scriveva Chirico invece di de Chirico ogni due per tre. Secondo Ballard, Dalí era un genio incompreso dalla critica, penalizzato da troppe clownesche apparizioni tv. Come avrebbe reagito dinanzi alle mostre itineranti, senza fine, “immersive”, che hanno di fatto di Dalí una costante dell’arte popolare insieme a impressionisti, Banksy, persino Frida Kahlo? Ballard il collezionista di Delvaux, il fan sfegatato di Burroughs, il critico di Joyce perché l’Ulisse lo avrebbe frenato dall’approcciare la letteratura con più mestiere e meno ambizioni, il fanatico della mobilità insostenibile, l’oscillante sostenitore di Tony Blair. I testi di pubblicistica ballardiana sono una mostra permanente di quello che gli passava per la testa e la migliore chiave di lettura delle sue opere narrative, cui hanno sempre preparato il terreno. Sebbene una passione per il surrealismo non valga più come un grido di battaglia, la non fiction di Ballard ha il potere di rendere squisitamente interessante ogni cosa che tocca, da una biografia non autorizzata di Nancy Reagan ai motivi per cui Kingsley Amis dovrebbe starsene alla larga dalla fantascienza.

Ecco, tomi alla mano, cosa c’è in Selected Nonfiction 1962-2007 che non c’è anche in A User’s Guide to the Millennium. Innanzitutto la bella, concisa prefazione di Tom McCarthy, in cui i tre difetti cardine della letteratura ballardiana – evidenziati da chi Ballard non lo ama – assurgono a motivo principe per abbracciarla: “repetition, machinism, schizoid hypermnesia”. L’introduzione del curatore Blacklock ci introduce davvero, a trecentosessanta gradi, nella testa dell’autore, e non manca di citare il suo divulgatore degli ultimi anni, Simon Sellars, webmaster del sito ballardian.com, autore di Applied Ballardianism e adesso anche editore con Wanton Sun.

Il volume decolla con una splendida scelta di quattro Statements, tre dei quali assenti dalla Table of Contents del 1996: il già citato What I Believe (Interzone, 1984), Notes from Nowhere (New Worlds, 1966) e la formidabile prefazione all’edizione francese di Crash (Foundation, 1973). Notes from Nowhere è articolato in 24 brevi (ap)punti e contrassegna l’inizio della sua fase sperimentale, che raggiungerà il picco proprio con Crash – a volte dotato persino di punto esclamativo: “Throughout Crash! I have used the car not only as a sexual image, but as a total metaphor for man’s life in today’s society. As such the novel has a political role quite apart from its sexual content, but I would like still to think that Crash! is the first pornographic novel based on technology. In a sense, pornography is the most political form of fiction, dealing with how we use and exploit each other in the most urgent and ruthless way” (dalla prefazione del 1973).

Se il secondo blocco, New Worlds, propone testi già riportati su A User’s Guide, il successivo Commentaries è in gran parte inedito in forma di libro e contiene brevi riflessioni sulla propria opera, su altri autori (Nathanael West, Joyce, Greene, Huxley) e artisti figurativi (Paolozzi, Smithson, Ruscha, Bacon…). Particolarmente illuminanti sono i “commenti” sui propri lavori fantascientifici, tra i quali Ballard, nel 1977, considera il racconto The Voices of Time (1960) quello che meglio rappresenta tutta la sua produzione. Nella sezione Features and Essays spiccano The French Riviera Spoiled? Only by Fear and Snobbery (Mail on Sunday, 1995), Airports: The Cities of the Future (Blueprint Magazine, 1997) e Welcome to the Virtual City (Tate Magazine, 2001), imbevuti dello spirito disincantato degli ultimi romanzi. In The Prophet (Guardian, 2005) Ballard celebra il genio di Michael Powell, Shock and Gore (Guardian, 2007) è l’ennesimo omaggio a Dalí mentre sia A Handful of Dust (Guardian, 2006), sia The Larval Stage of a New Kind of Architecture (Guardian, 2007) parlano di architettura modernista e contemporanea. Il secondo articolo, incentrato sul quel giocattolone del Guggenheim di Bilbao, è anche l’ultimo mai pubblicato in vita da Ballard, e si conclude così: “From the far side of the Styx I’ll look back on it with awe”.

Il quinto capitolo è dedicato a Lists, Captions and Glossaries. In Collector’s Choice: Outer Limits (American Film, 1987) Ballard enumera i suoi film di fantascienza preferiti (ci sono anche Alphaville e Barbarella), mentre in What Makes a Classic? (1999) tocca ai romanzi in generale, con un’azzardatissima previsione su quelli che saranno in voga anche nel 2099. Ballard riporta nove titoli, tra cui The Alexandria Quartet di Lawrence Durrell e The Loved One di Evelyn Waugh. Questo spiega anche il suo radicamento, in senso positivo, nella cultura britannica. JG Ballard è uno scrittore di Shepperton nato e imprigionato a Shanghai.

Le recensioni coprono sessant’anni di lavoro “per arrotondare” e formano la maggioranza relativa del volume. Ballard ha recensito di tutto, dal lavoro di colleghi nel campo della fantascienza a manuali di educazione sessuale, fino – notoriamente – al Mein Kampf. Nel volume di Blacklock, di inedito c’è ad esempio il parere su Steven Spielberg: The Unauthorised Biography, apparso su Independent nel giugno del 1996. L’autore è John Baxter, famoso “biografo dei registi” che Ballard leggeva avidamente e che in questa sede critica nel suo approccio miope nei confronti dell’eterno ragazzino Spielberg, “Puccini del cinema”. Un altro inedito riguarda Chris Rodley e il suo Lynch on Lynch, recensione sull’Observer dell’agosto 1997. Interessante come spia di un’ossessione vera l’articolo su The Black Box: Cockpit Voice Recorder Accounts of In-Flight Accidents, a cura di Malcolm Macpherson (Daily Telegraph, agosto 1998). Se le cose vanno storte tra lamiere e tecnologia rampante, Ballard è sempre in prima linea.

Una minima parte dei testi critici apparsi sui giornali riguarda anche film e televisione. Qui si celano due chicche del 2005, vale a dire commenti entusiastici su A History of Violence e C.S.I. Se nel secondo caso l’autore è stupefatto dinanzi al potere ipnotico di una serie televisiva fondata sulla sottrazione, nel primo l’articolo è molto più di una recensione, arrivando a tracciare le coordinate dell’intera opera del regista canadese. “Existence, in Cronenberg’s eyes, is the ultimate pathological state. He sees us as fragile creatures with only a sketchy idea of who we are, nervous of testing our physical and mental limits. The characters in Cronenberg’s films behave as if they are inhabiting their minds and bodies for the first time at the moment we observe them, fumbling with the controls like drivers in a strange vehicle. Will it rise vertically into the air, invert itself, or suddenly self-destruct?”

Il settimo capitolo coincide col ritorno sulle pagine di New Statesman tra il 1999 e il 2006, una fase segnata da frequenti riflessioni sulla politica britannica e la ricetta blairiana del consenso. L’ottavo, dedicato a scambi e testi d’occasione, sfodera un ping-pong del 1998 su Week e Guardian in cui Ballard duella con Anne Atkins in tema di censura e libertà artistica. Il pretesto è nientemeno che Lolita in versione Adrian Lyne, ma la discussione si sposta alla svelta verso Crash e altri lidi più insidiosi, con Ballard sulle barricate libertarie come ai tempi di Why I Want to Fuck Ronald Reagan.

Il volume si conclude con una decima sezione dedicata a Memoir and Tributes, di fatto un’integrazione a Miracles of Life (2008) – e l’ultimissima frase, in coda a un coccodrillo di Burroughs, lamenta il dramma di essere lasciati alla mercé degli scrittori di professione. Puntuta e sorprendente la penultima sezione, Capsule Commentaries, che offre alcuni brevi testi tra cui uno dedicato alla Westway londinese. Le poche righe di Apocalypse Now?, uscite nel 1995 per Spin, recitano: “I dream of: Dying in a car crash with Madonna. Having sex with Hillary Clinton. Appearing in Zapruder frame 313 with Jackie Kennedy. Being transformed into a TV channel. Detonating a nuclear weapon over Disneyland. Having all the whores in Moscow call me on their mobile phones. Seeing time make a new beginning. Persuading Neil Armstrong to return to Earth. Meeting my younger selves on the virtual-reality highways of tomorrow. Being buried under the main runway at London’s Heathrow Airport”. Metafore estreme, professioni di fede.

Welcome to Annexia

William Lee (Peter Weller) in Naked Lunch (1991) di David Cronenberg.

Luglio, col bene che ti voglio, mese allucinante. Lasciando da parte la sfera pubblica, nel privato mi ritrovo con sei libri tradotti e consegnati, ora in varie fasi di lavorazione, due milioni di battute michelangiolesche (and counting) in pieno smaltimento fino ad aprile, gli esami universitari finiti da pochi giorni col fiatone e tutto il resto che va umanamente, inevitabilmente accatastandosi. Quando ho avuto il covid a inizio mese, insieme alla febbre a 39 m’hanno steso gli attacchi di panico perché temevo di non farcela a reggere il calendario, o ancor peggio: di sprofondare in un annebbiamento mentale inconscio. Tra i fumi del corona, però, una cosa ha fatto breccia, ed è stata la visione dopo trent’anni di Naked Lunch. Il prossimo mese esce Crimes of the Future, e qui scrivo come arrivarci ben preparati, recuperando qualche leccornia.

L’accoglienza standard del nuovo film, presentato a Cannes, è stata positiva, secondo la falsariga di un ritorno alla forma, al body horror dantan. L’autore che si fa aggettivo di sé stesso. In realtà le cose sono più complesse, e l’impressione è che molto di quanto scritto finora su questo ritorno sia stato dettato dal marketing. Solo IndieWire azzarda un’interpretazione che smentisce la campagna e colloca il film in una nicchia molto più soffice rispetto alle promesse hardcore fatte circolare da Neon e dal regista in primis. Premesso che questa non è una recensione anche se ho potuto vedere il nuovo Crimes, l’intento è di spianare la strada verso la visione di un evento cinematografico molto intenso, che trae tuttavia la propria intensità dalle pieghe meno popolari del mondo cronenberghiano. A dargli il la è l’astrazione, la sottrazione dei film successivi a The Fly o precedenti a Shivers, non certo la solidità fracassona di classici come Scanners o Videodrome. Si torna quatti quatti alla House of Skin che impregna, a parole, il suo secondo lungometraggio, parimenti intitolato Crimes of the Future e uscito nel 1970. E si torna, soprattutto, a Cosmopolis (2012).

Cronenberg ha sempre parlato di corpi. Corpi infetti o infettabili (Shivers, Rabid, Videodrome), corpi che si riproducono o gemmano (The Brood, Scanners, The Fly, Maps to the Stars, il nuovo Crimes of the Future), corpi che si sdoppiano (Dead Ringers, Spider anche se su un piano solo mentale), corpi presentati come scandalosi da un punto di vista eteronormativo (Naked Lunch, M. Butterfly, Crash, Eastern Promises). Quest’ultimo punto riguarda soprattutto la messinscena di sessualità queer, o semplicemente omo, un tema che Cronenberg esplora fin dalle origini con esiti altalenanti e abbastanza problematici da un’ottica odierna. Se da un lato il suo primo attore feticcio, Ron Mlodzik, incarna anche a cinquant’anni di distanza una liberazione frocissima che non ha neanche bisogno di scene esplicite o spiegoni, basta Fast Company (1979), il film meno visto e più rilassato di Cronenberg, a chiarire una visione del mondo che di queer ha ben poco. Detto ciò, nel contesto scombiccherato di Naked Lunch ci sta anche una figura come Kiki (Joseph Scorsiani), con la fine orrida – e scadente sul piano degli effetti speciali – che fa nelle grinfie di Julian Sands. Inoltre, la rivelazione quasi argentiana del personaggio interpretato da Roy Scheider spacca perché flette il gender senza alcuna agenda ideologica, arrivando a contaminare, nel gesto e non nello scopo, l’ultima inquadratura di Grave (2016) di Julia Ducournau. M. Butterfly venne fatto a pezzi già nel 1993 per come racconta la storia d’amore tra un diplomatico e una spia-cantante d’opera che si traveste da donna. Premesso che la vicenda è ispirata a fatti veramente accaduti e che lo sceneggiatore, David Henry Hwang, è anche l’autore della pièce originaria, non certo tacciabile di orientalismo, a salvare il film dagli abissi della scarsa credibilità è la scena pazzesca nel cellulare della polizia penitenziaria, una tunnel vision tutta sensoriale. Altro che cecità dell’amore. Il finale fa piangere ogni volta perché la disperazione di René Gallimard è data dalla perdita, non dall’inganno dell’uomo che ha amato.

L’universo cronenberghiano è anche nutrito dalla tecnologia e dalle macchine. L’automobile, in tutte le sue forme, stimola la libido (Fast Company, Crash, Cosmopolis), e al di là dei motori la tecnologia in generale crea dipendenza e scardina la realtà (Videodrome, Naked Lunch, eXistenZ, il nuovo Crimes of the Future). Questa tecnologia non dev’essere per forza attaccata alla corrente, come il segnale televisivo e le videocassette di Videodrome o i videogiochi immersivi (nel corpo) di eXistenZ. Per tacere dei pod per il teletrasporto di The Fly, che fondono tutto – anche sé stessi. Di fatto, basta una macchina da scrivere usata sotto effetto di droghe (scarafaggi polverizzati), oppure un dispositivo organico (!) per autopsie. Vivian Sobchack – un ringraziamento a Michele Faggi per lo spunto – critica l’adattamento ballardiano di Cronenberg nel suo libro Carnal Thoughts – Embodiment and Moving Image Culture (University of California Press, 2004). Nel capitolo Beating the Meat / Surviving the Text lamenta: “What the film Crash shows us – quite unlike the novel – is people having sex in cars, not with them” (p. 177). Ballard venne estromesso dal lavoro di sceneggiatura, forse anche per via della sua graduale presa di distanza da Crash: da opera di avanguardia volontariamente pornografica, amorale e pansessuale a “cautionary tale” guardata con occhi non più febbrili. Il fatto che il film del 1996, a suo tempo pompatissimo come a un passo dal porno, risulti meno escoriante di quanto ci si possa aspettare, rientra però in pieno nella manovra di astrazione che Cronenberg persegue con coerenza dai tardi anni Ottanta. Gli incidenti vengono privati di qualsiasi spettacolarità à la Zabriskie Point, e in linea con la filosofia di Antonioni Cronenberg tenta di vedere “l’effetto che fa” smontando la propria body horror machine, il proprio “film-tipo”, pezzo per pezzo. Riguardando Crash, sembra che l’elemento dell’auto più sexy in assoluto sia la cintura ossessivamente inquadrata in una scena. E il suo film più ballardiano, che sembra quasi anticipare High-Rise, resta quel capolavoro di Shivers (1975). Quanto al sesso con le macchine, tema più forte sulla carta che sullo schermo, qualcun altro nel frattempo ha imboccato questa strada, zigzagando nei meandri della famiglia.

Corpi, macchine, politica. Un aspetto poco esplorato della filmografia di Cronenberg, forse perché meno viscerale rispetto ai “bottoni morbidi” e alle ferite eccitanti, riguarda proprio la cornice sociale. I complotti in grande stile interessano già le trame di Scanners e Videodrome, ma solo in The Dead Zone, adattamento kinghiano, appare per la prima volta un politicante (Martin Sheen) che visto oggi sembra un Trump ante litteram. In M. Butterfly il tema della dittatura e delle rivolte studentesche è centrale, anche se un po’ stereotipato, mentre in Cosmopolis, altro adattamento (da DeLillo), irrompe un clima da crisi finanziaria, con tafferugli degni di Occupy e gente che brandisce e lancia topastri, auspicando una nuova valuta mondiale: il ratto. Molto presente anche nel nuovo Crimes of the Future, il tema politico come cornice minacciosa e absurdista raggiunge in Cosmopolis una dimensione propriamente cronenberghiana. La tecnologia diventa (flusso di) capitale, un assassinio trasmesso nel televisorino della limousine bianca del protagonista ricorda sia l’estetica da scantinato di Videodrome, sia la Cina cartolinesca di M.Butterfly (c’è un ritratto-icona di Mao sullo sfondo), e il corpo più massacrato di tutto il film non è quello di Robert Pattinson, bensì la stessa limousine, che arranca per New York come un carrarmato capitalista.

Dopo il finale straziante di The Fly, cristallizzazione perfetta di un sottogenere che riesce a diventare mainstream senza perdere smalto, Cronenberg cambia strada. Il che non vuol dire solo meno sangue, meno trucco e meno trucchi, ma anche e soprattutto un approccio sghembo ai generi affrontati, a cominciare dall’idea stessa di adattamento. Naked Lunch è un cut-up cronenberghiano su William Burroughs, cioè dell’opera e dell’uomo. Del romanzo in sé resta solo un vago esoscheletro, molti elementi – come le macchine da scrivere in versione scarafaggio parlante e ingrifato – sono farina del sacco del regista-sceneggiatore, altri vengono dal resto della produzione burroughsiana o addirittura dalla sua vita personale, come l’uxoricidio in stile “Gugliemo Tell” ripetuto anche in chiusura. L’atmosfera generale è finta, quasi pauperistica, come la Cina di M.Butterfly. Anche eXistenZ e Spider spostano l’azione su un piano squisitamente soggettivo, allucinatorio, e nel film del 2002 scritto da Patrick McGrath (già autore del romanzo) Ralph Fiennes si trascina dall’inizio alla fine mormorando parole incomprensibili – un habitus malaticcio, quasi da burnout in attesa di salvezza, che sarà ripreso da Viggo Mortensen / Saul Tenser in Crimes of the Future. In Cosmopolis, corpi e amplessi vengono mostrati con la medesima freddezza di Crash, ma a contare sono i dubbi su quello che sta accadendo al loro interno. Il protagonista Eric Packer scopre con sconcerto di avere la prostata asimmetrica; il suo avversario-stalker depresso, Benno Levin (Paul Giamatti), a volte crede che il pene gli si stia ritirando nello stomaco, e al bel Packer spiega che il controllo non serve a nulla dinanzi all’imperversare dell’imperfezione. In Maps to the Stars (2014), scritto da Bruce Wagner, Julianne Moore / Havana Segrand chiede a Robert Pattinson / Jerome Fontana, stavolta chauffeur e non yuppie scarrozzato: “Do you like my skin? And my holes?”. Colpisce più la frase della trombata che ne segue. È come se Cronenberg volesse smentire il motto Show, don’t tell. Gli effetti speciali, questo già in Naked Lunch, non nascondono la loro origine artigianale, e quando diventano digitali come le proiezioni appiccicate ai finestrini interni della limousine all’inizio di Cosmopolis, o nella famosa scena “buttata lì” di Olivia Williams avvolta dalle fiamme sul finale di Maps to the Stars, non puntano alla soluzione elegante, semmai alla pecionata. Lo si vede nel BreakFaster di Crimes of the Future. Budget o non budget, non ci si vergogna dell’imperfezione. Tu chiamala, se vuoi, sottrazione.

Questi aspetti si colgono meno in due dei film più solidi di Cronenberg, A History of Violence (2005; sceneggiato da Josh Olson a partire dalla strepitosa graphic novel di Wagner e Locke) e Eastern Promises (2007, scritto da Steven Knight), importanti anche per via della collaborazione con Viggo Mortensen. Meno rischiose nella loro classicità “criminale”, anche se memorabili per le scene di violenza, le due pellicole richiamano l’immediatezza dei classici del regista senza tuttavia rielaborare oltre i temi di cui sopra. Discorso diverso, in negativo, per A Dangerous Method (2011), scritto da Christopher Hampton, che si traduce in un centone piuttosto gelido del rapporto tra Freud e Jung.

“Long live the new flesh!” recitava il motto rivoluzionario di Videodrome. Con Crimes of the Future, Cronenberg ne lancia uno nuovo, “Surgery is the new sex”, e accoppia la chirurgia all’arte, facendoci fare un balzo all’indietro ai tempi in cui Orlan era all’avanguardia e in libreria si poteva trovare una rivista di nome Virus. In realtà, la sceneggiatura del nuovo film non è affatto nuova, e questo spiega il suo legame culturale con gli anni Novanta. Cronenberg ha ribadito in più occasioni che si tratta di una sceneggiatura recuperata, forse risalente allo stesso periodo di eXistenZ, e che nel 2003 stava per entrare in produzione col titolo di Painkillers. Se l’andamento tossicchiante, e le atmosfere decadenti, ricordano il primo Crimes of the Future (con un interessante parallelo Mortensen-Mlodzik) o addirittura Spider (con la Grecia al posto di King’s Cross), Il legame strettissimo con l’arte e la cornice distopica in cui si svolge l’azione creano un ponte con Cosmopolis, film “militante” prodotto da Paulo Branco che fa un uso particolare dei titoli di testa e di coda. Cronenberg ha sempre fatto molta attenzione ai titoli, trasformandoli in texture capaci di riassumere lo spirito del film. Al brulicare indistinto di The Fly, agli allegri cartoncini anni Cinquanta di Naked Lunch, ai disegni anatomici di Dead Ringers, alle maschere, le farfalle e i ventagli digitali di M. Butterfly, alle macchie di Rorschach di Spider fanno seguito, in Cosmopolis, dei titoli di testa ispirati a Pollock e dei titoli di coda ispirati a Rothko, artista citato nel corso del film. In Crimes of the Future il protagonista non colleziona opere d’arte come Packer: le fa, anzi le produce col proprio corpo, espellendole mediante un complesso rituale. Body is reality.

Il corpo è l’unica cosa vera nei film di Cronenberg. Quello di Rose (Marilyn Chambers) in Rabid, che in seguito a un trapianto di pelle sviluppa un pungiglione vampirizzante sotto l’ascella sinistra. Quello tabù dei bambini, creature assassine in The Brood, morituri in Maps to the Stars e nel nuovo Crimes of the Future. Quello stanco, pensoso, inespressivo di William Lee in Naked Lunch, che nel finale arriva alla frontiera di un paese protosovietico guidando uno strano mezzo cingolato con in sottofondo il sax di Ornette Coleman in libera uscita. A bordo c’è anche la moglie Joan (Judy Davis). Le guardie col colbacco gli chiedono una prova del fatto che è scrittore, lui mostra il “writing device” (la stilografica) ma non basta, e allora ripete la scenetta di Guglielmo Tell impallinando la fronte della moglie che nel frattempo s’è svegliata, mettendosi un bicchiere sul capo. Solo allora, con una lacrima che gli scende dall’occhio azzurrissimo mentre tiene la testa di lei, William è Welcome to Annexia. Ominosi, come si conviene, i titoli di coda musicati da Howard Shore.

Cosmopolis (2012), titoli di testa e di coda.

“love is a dog from hell”

Siamo stati a Lione, Francia, patria dei fratelli Lumière. Cosa che manco sapevo. E invece c’è un intero quartiere loro dedicato, con una Résidence frères Lumière che somiglia a una scatola di plastica bianca con tante finestrelle, oblò quadrati incorniciati da salvagente quadrati. Dentro ci abitano i più poveri tra i poveri, bandiere brasiliane appiccicate ai vetri. A un tiro di schioppo da lì, superata una batteria di forni che propongono praline (mandorle cotte nello zucchero e colorate di rosso artificiale, un po’ come il volto di Alexia qua sopra) incastonate in brioche, torte e altre pantagrueliche diavolerie, ecco, a un salto di gatto da lì c’è la Rue du premier film. Sede dell’Istituto Lumière, della villa liberty dei fratelli Lumière e della loro ex fabbrichetta di lastre fotografiche, i cui operai in libera uscita funsero da protagonisti corali per il primo tassello della storia del cinema. Lo scheletro dell’officina è ancora visitabile, e delle lastre trasparenti riproducono in loco, in 3D senza occhialini, quella inquadratura piena di gente che esce dal buio del posto di lavoro sciamando fuori campo a destra e a sinistra. Pure un cane. Lungo la stradella c’è il muro dei cineasti regolarmente arricchito da registi in visita (fun fact: Dario Argento e Claude Lelouch ricorrono due volte), ed entrando in un cortile si arriva alla libreria dell’istituto, zeppa di dvd, raggi blu, libri e riviste. Un tesoro che da giovane m’avrebbe divorato mezzo budget del viaggio. Ora, nell’era dell’accesso e non del possesso (cit. Han), quella cornucopia di titoli ben organizzati m’ha lasciato freddo, anzi, mi son chiesto ma perché non è una biblioteca. Tra le cose non prettamente filmiche ho scoperto Schnock (“la rivista dei vecchi tra i 27 e gli 87 anni”), tra quelle giustamente cinefile una scaffalata dedicata a Jane Campion (film e ispirazioni letterarie) e una che mette a disposizione i film precedenti degli invitati in concorso a Cannes. In mezzo, giallo canarino assassino, Grave di Julia Ducournau. In centro città davano Titane, per poco non mi son pisciato addosso quando l’ho visto. Compriamo subito quattro biglietti, anche per due amiche, ci andiamo il giorno dopo e nel giro di mezz’ora mi trovo da solo al cinema – con un estraneo alle spalle. Mascherina in mano, tanto a bocca spalanca ferma non sta.

Titanio, l’opera seconda di Ducournau che ha vinto a Cannes (and Spike did the right thing), è ancora una volta un film sulla famiglia. O meglio, sulla perdita e la ricostituzione di una famiglia. Niente spoiler in questa recensione, a parte degli spunti di massima che chiunque s’interessi al film non può evitare. O cose che hanno circolato molto perché il presidente di giuria, amabilmente picchiatello, le ha sparate in conferenza stampa sulla Croisette. La protagonista Alexia (Agathe Rousselle) si fa mettere incinta da una Cadillac laccata leopardo. Succede sul serio, e questo dà la cifra del tipo di sospensione dell’incredulità richiesto dal film, effettuata la quale tutto il resto – ed è molto – scansa il ridicolo involontario e diventa accettabile con la medesima serenità, la divina nonchalance della messinscena di Ducournau. Se si accetta la premessa del film, se ci si entra dentro godendo delle sue regole del gioco, anche noi spettatori ci ritroviamo con una placca di titanio sulla tempia a contatto col cervello. E si parte in quarta. In caso contrario l’esperienza sarà solo dissonante, cacofonica, goffa e pretenziosa. Fragile. Alexia ha un tatuaggio sullo sterno che recita “Love is a dog from hell“.

Anche Grave inizia con un’auto. In quel caso, il veicolo arriva in campo lungo su una strada di campagna e sbanda per non investire una persona che si butta sulla carreggiata uscendo da un cespuglio. In Titane, l’incipit è dentro un’auto, una normale auto familiare con una bimba sul retro (Alexia) e uno scorbutico padre al volante che vuole ascoltare la radio mentre la piccola gli molla dei calci. Che probabilmente merita per motivi che non sappiamo ma possiamo dedurre. La corsa finisce male, la bimba viene ospedalizzata e ne esce con la placca alla tempia. Va alla macchina e bacia il finestrino. Titoli di testa.

Titane procede con un metodo additivo che riesce a far dimenticare regolarmente l’evento citato poc’anzi, cioè la gravidanza della protagonista. Ripeto: il film riesce a farci dimenticare che la protagonista, col pancione sempre più in vista, è stata messa incinta da una Cadillac. La suspense non si siede sull’idea forte e perturbante del primo quarto d’ora, anzi suscita stupori sempre nuovi, alza la posta della fede in quello che stiamo vedendo. Il corpo di Alexia non cambia solo per via della dolce attesa in salsa d’olio motore. Quando in scena arriva il pompiere anabolizzato Vincent (Lindon), cinquantenne massiccio fuori e spappolato dentro, Titane cambia binario per la terza volta: non è un body horror in zona Crash e nemmeno un torture porn con un’assassina seriale lesbica. Perché sono queste le impressioni, mai confermate fino in fondo, della prima mezz’ora che vede peraltro il ritorno davanti alla macchina da presa della fenomenale attrice di Grave Garance Marillier nei panni di Justine. Niente più Cadillac infoiate, niente più carnai accompagnati da musica popolare italiana (vedere per credere, anche se Gianni Morandi in Parasite funziona molto meglio). Dall’incontro struggente, assurdo, bellissimo tra Alexia e Vincent sboccia il film vero, quello che arraffa i fili della mascolinità problematica intuita dalle prime scene e la cambia di segno. Titane abbandona il metallo, quello laccato, quello dello spunzone che Alexia s’infila tra i capelli e pianta nelle teste delle sue vittime, e si butta nel fuoco. Sequenze astratte, strazianti, vedono la squadra di Vincent al lavoro tra le fiamme, ma è il dopo a colpire. I pompieri tornano in caserma e ballano. Sì, di balli dei pompieri ce ne sono due nel film, manco Miloš Forman. È vedendo l’estasi contagiosa del ballo di Vincent che si capisce dove stia andando a parare Titane. Basta ascoltare Light House dei Future Islands per comprenderne lo spirito, che ben poco ha a che spartire con certo maledettismo di genere. Ducournau batte una strada tortuosa, mai consolatoria – come quella del cinema di Bellocchio che dall’omicidio della madre nei Pugni in tasca finisce per parlare solo di famiglie, di famiglia, la propria, colpe ed esorcismi, Marx può aspettare.

Con Titane, Julia Ducournau fa maturare gli spunti clou di Grave. Lo fa ribadendo un genio per la composizione del quadro, una pulizia anche nel massacro, rese sublimi dalla fotografia di Ruben Impens. Idem per le scelte musicali (il pezzo del trailer è del 1964, la band si chiama The Zombies: ci credereste?) ben amalgamate con la colonna sonora di Jim Williams e Séverin Favriau. Lo fa, soprattutto, con due armi segrete. La prima, be’, è il gender. Un approccio di petto, da crash test dummy nei confronti della nostra fluidità e degli stereotipi classici, da non temere, anzi: da riprodurre, pompare, lasciar sgonfiare davanti all’obiettivo senza tracciare a matita inutili teorie accademiche. In questo, ogni film di Ducournau è una dichiarazione d’amore ai corpi, lontana anni luce da un horror fondato sulla paura della metamorfosi o della diversità. Brividi da M. Butterfly. La seconda, molto più sottile, è la capacità di lasciar perdere. La trama perde pezzi, o li accenna appena, e questo riesce a potenziare il film invece di azzopparlo. L’inquadratura che ritrae un pompiere sfregiato da un incidente che forse non è un incidente dura pochi millesimi di secondo, tanto da farci dubitare che sia davvero ancora vivo. Una donna sottoposta a catcalling in autobus viene lasciata, o forse no, al suo destino, perché vediamo solo Alexia scendere dalla vettura e fare ritorno da Vincent. Per tacer della Cadillac, tanto intraprendente da bussare alla porta e far tremare gli specchi. Persa nei meandri del nostro cervello, o forse perpetuata e completata dalle stesse sinapsi che ci fanno immaginare il demonio vedendo la scena della culla di Rosemary’s Baby. E dire che gli effettacci ci sono. C’è una scena, all’inizio, di violenza impossibile, con tanto di schiuma e occhi bianchi à la Evil Dead. Ma Titane, pur stupendo e mordendo capezzoli, non vuole urtare bensì commuovere raccontando la storia di una famiglia che si rigenera fuori da ogni plausibile schema. Deleuze, se non si fosse buttato dalla finestra, potrebbe parlare di nuova immagine-pulsione.

Approfondimenti titanici: 1) recensione di Michele Faggi su indie-eye 2) seconda visione, con un tocco di Bach.