natura snaturata

Kino Krokodil, Berlino.

Quattro film dell’orrore, quindi del piacere puro, captati nell’arco di questo autunno tedesco inoltrato che sfocerà molto probabilmente in un inverno elettorale da Valpurga. E allora meglio allenarsi a esorcizzare ancora di più tramite schermo, grande questo schermo, visto in prima fila svaccati su qualche divano impresentabile, che solo a Berlino può fungere da sostituto della poltrona da cinema. Ultime frontiere selvagge di una città ormai normalizzata, piena come ai tempi di Weimar ma sempre meno acuminata e spiazzante. A quando un bel film tedesco neoespressionista che assorba e trasfiguri questo mulmiges Gefühl?

Terrifier 3 è un filmazzo americano. Attesissimo da almeno due anni, ha fatto notizia per l’ottimo risultato al botteghino malgrado la quantità immane di sangue e macelleria. Dei film precedenti di Damien Leone ho già parlato, e la visione di T3 è stata una gradevole sorpresa. Non solo Art the Clown è diventato un fenomeno di costume che piace anche ai bimbi, ma il film, solido e accessibile – per chi apprezza l’articolo – riesce su un livello inaspettato, che è quello dell’armonizzazione dell’immaginario. In altre parole, Leone mette ordine nel garage da serial killer in salopette dei titoli già usciti, portando avanti la trama verso un possibile finale coi fuochi d’artificio – e soprattutto, ricalibrando il tono. Le pecche, o i punti critici degli altri Terrifier vengono smussati con classe, potenziando le parti già efficaci. Qualche esempio senza spoiler. Se Terrifier 2 aveva espanso l’incubo del primo, concentrato in una sola notte, trasformandolo in un teen movie anni Ottanta con influssi fantasy e minutaggio fuori controllo, stavolta il film ha dei paletti. Riprende l’azione da dove l’abbiamo lasciata ma non con la precisione pedissequa del secondo: il rabbercio avviene in flashback dopo la sequenza iniziale, a sé stante, una classica home invasion. Visto che i protagonisti sono molto giovani, la sceneggiatura fa un salto di cinque anni a fini di credibilità, e la prima idea geniale è quella di mettere il mostro, e la sua collaboratrice, a riposo. In una palazzina che fonde il fetido col gotico. Per lo stesso motivo anagrafico, la bambina da tregenda che affianca Art nel secondo episodio scompare, sostituita da Vicky, in teoria avversaria del clown (così viene introdotta nel primo film – ma parlare di psicologia con demoni in forma di pagliacci è ridicolo, quindi l’incredulità va sospesa alla grandissima). Anche sul finale c’è una home invasion, che di fatto impedisce all’eroina Sienna (Lauren LaVera) di tornare nel luna park abbandonato del secondo film, con tanto di attrazione chiamata Terrifier. Un’ellissi che comprime l’azione, toglie alcune zeppe dalla trama e infila un bel tranello nella forma di un coprotagonista ammazzato fuori campo. Al contempo, si intuisce che il quarto capitolo avrà ben poco a che vedere con la concretezza urbana di scantinati, cessi, dormitori studenteschi e pizzerie da asporto. Stiamo ancora aspettando Machete nello spazio, ma forse vedremo Art agli inferi.

Il terzo lungometraggio targato Terrifier conferma la strategia autoriale del nome del regista piazzato col genitivo sassone sopra il titolo, un gimmick inventato da Carpenter ai tempi di Halloween e a sua volta mutuato da Hitchcock e Fellini. Il paragone può non reggere sul fronte della scrittura filmica – Leone ci mette del suo più negli effettacci che nei movimenti di macchina – ma è vero che l’invenzione di Art e la modellazione di questa epopea slasher dimostrano un controllo, e una perseveranza premiata dai fan, rarissimi nel genere trucido. Pochi anni fa ci ha provato, senza successo, Rob Zombie, e proprio nella sua trilogia della Casa dei mille corpi troviamo un pagliaccio coi denti marci, l’imprenditore del pollo fritto Captain Spaulding (Sid Haig). Zombie non ha mai più ripetuto l’exploit del primo film, reboot ufficioso e malsano del Texas Chain Saw Massacre, e i suoi remake di Halloween sono quasi subito finiti nel mucchio. Leone sta puntando tutto sulla proprietà intellettuale della maschera che ha inventato, costruendoci attorno un mondo, e un intreccio, via via corretti e riarrangiati.

Art funziona prima di tutto grazie alla mimica di David Howard Thornton, che malgrado i chili di trucco e il costume debordante ci regala un clown da film muto che sarebbe piaciuto a Tod Browning o Victor Sjöström (penso a He Who Gets Slapped, 1924, da un dramma russo, peraltro ispirazione numero uno di Alex de la Iglesia per Muertos de risa, 1999). Art è la via di mezzo tra l’agghiacciante semplicità del Michael Myers di Carpenter, una forza della natura col coltello in mano e la maschera di William Shatner in faccia, e il brivido metafisico – e metanarrativo – di Freddy Krueger. Con l’aggiunta di un’attrazione fatale per feci, scalpi e budella, e di un senso dell’umorismo perfetto per questi tempi bui. Uno dei momenti più alti di Terrifier 3 è l’incontro di Art con un omone vestito da Santa Claus. Il clown delle carneficine, questo demone in terra che vaga con un sacco della spazzatura in groppa, è un grande ammiratore di Babbo Natale! L’idea spassosa del terzo capitolo è proprio quella di spostare l’azione dalla notte delle streghe a quella del Bambinello, con tanto di riferimenti religiosi a pioggia: stimmate, corone di spine, madonne dell’Ade, presepi e cappelle.

La saga di Terrifier sta per lasciare questa valle di lacrime per buttare il cuore oltre la dimensione terrena. Un rischio enorme degno di Lars von Trier: come rappresentare l’inferno? Come scansare il boomerang dello spiegone escatologico? Intanto, il film uscito in ottobre mette a segno un paio di colpi da maestro. Il più importante per la tenuta generale della serie riguarda il trattamento delle vittime. Leone è sempre stato accusato di sessismo: morti femminili lente e dettagliate, morti maschili sbrigative e poco fantasiose. In Terrifier 3 lo sguardo cambia e l’equilibrio, chiamiamolo di genere, viene ristabilito con gusto. In seconda battuta, la deriva fantasy di T2 viene ridefinita in chiave fumettistica, e anche questo è un bene. Poi c’è il già citato cambio di calendario dagli addobbi di fine ottobre a quelli di Black Christmas e Silent Night, Deadly Night. Infine, letteralmente alla fine del film, la copertina di un libro aggancia il primissimo cortometraggio con Art (The 9th Circle) all’universo diabolico di Polański. Il cerchio si chiude con un pagliaccio triste a cui resta solo la trombetta – che fa più paura di seghe elettriche e altri ammennicoli.

In a Violent Nature di Chris Nash è la rivelazione dell’anno. Anche questo è uno slasher, con una figura solitaria e inarrestabile che fa fuori chiunque le capiti a tiro. Piccola produzione canadese via Shudder, ambientazione lussureggiante in Ontario. Se Terrifier ricorda Freddy e Michael, questo esercizio agghiacciante di disciplina cinematografica tira in mezzo Jason Voorhees. Il titolo dice già tutto, e va interpretato in senso letterale: qui il killer non è una forza ancestrale, ma è la natura che si ribella. Metafora banale, resa eccellente con un metodo complementare a quello di Leone. Nash fa sentire la macchina da presa a ogni passo, le inquadrature sono pianificate con la precisione geometrica di uno Tsai Ming-liang, la commistione di documentario naturalistico e pedinamento dardenniano ci arriva in piena fronte come un’ascia lanciata da tre metri di distanza. I momenti più significativi sono quelli in cui il punto di vista si trova alle spalle della creatura emersa dal fogliame, intenta a marciare per la foresta. Una replica, casuale o inconscia, della scena al piano superiore del convenience store nella Part 15 di Twin Peaks – The Return, quando il Cooper posseduto da Bob viene scortato da un tozzo Woodsman verso gli appartamenti di Phillip Jeffries, e una dissolvenza incrociata fonde un corridoio consunto con una foresta scricchiolante di conifere.

Il film di Nash, di cui è già in cantiere un sequel, funziona come horror esplicito – con un paio di sequenze che svuotano i polmoni – pur spostando tutta l’attenzione dagli attori al piano filmico. Malgrado i meriti artigianali, e l’originalità malata di alcuni ammazzamenti, è la freddezza documentaria a penetrare sottopelle. I corpi sembrano meri strumenti volti a spiegare il funzionamento di un dispositivo meccanico, di un attrezzo da lavoro in dotazione ai ranger forestali. Oltretutto, il mistero non c’è. La prima inquadratura contiene l’innesco della trama, il golem con la vecchia maschera antifumo ha anche un volto che viene tranquillamente ripreso in primo piano, la suspense è annichilita dall’ineluttabilità della natura indifferente che cerca di ripristinare un equilibrio. La forza del film, e il miracolo della sua efficacia, sta nel mettere sullo stesso piano l’attesa e l’attuazione, lasciando nel montaggio delle intercapedini, e delle durate, che qualsiasi film di genere sforbicerebbe per contratto. Ipnotico, solo a tratti minacciato da flashback superflui e recitazione non eccelsa, In a Violent Nature è decrescita felice allo stato puro. Non manca un tocco di Romero ispirato a Land of the Dead, in una lunga sequenza al lago dove sappiamo che il buzzurro ammazzasette sta camminando sul fondale diretto alla prossima vittima, ma non lo vediamo. Nella testa sì.

Des Teufels Bad è un film austriacissimo di Veronika Franz e Severin Fiala che parla di come venivano trattati i casi di depressione grave tra il diciassettesimo e il diciottesimo secolo. Visto che il suicidio è peccato mortale agli occhi del cattolicesimo, la persona che non ce la faceva più a vivere sceglieva di uccidere un innocente per venire poi assolta in confessione – e giustiziata in piena grazia diddio. Più di quattrocento bambini furono uccisi in questo modo. Prodotto da Ulrich Seidl, il “bagno del diavolo” – termine che a suo tempo indicava gli stati depressivi – ha l’andatura perentoria e ossessiva dei suoi film migliori, anche se manca del tutto il tocco sarcastico. Rispetto alla trappola percettiva di Ich seh ich seh (2014) e alla più convenzionale produzione anglofona The Lodge (2019), questa pellicola di Franz e Fiala, con un solido fondamento scientifico, si risveglia negli ultimi quindici minuti dopo un sonno nel bosco non sempre tonificante. La protagonista Agnes (Anja Plaschg) vorrebbe diventare madre, ma si scontra con un marito gay (David Scheid) e una suocera ingombrante (Maria Hofstätter, volto storico del cinema di Seidl). A rendere interessante il film non è tanto la crudeltà del tema, bensì la descrizione in stile pittura su legno delle condizioni di vita in Bassa Austria, tra cascate minacciose, pesca disperata in acque basse, casupole nella foresta, fango e pelli di animale. La natura salta agli occhi più dell’abbozzo di civiltà fagocitato dalla religione e dettato da riti disumani, come la bevuta collettiva del sangue dell’infanticida decapitata, ritenuto un toccasana contro la malinconia. Sullo sfondo di un ambiente ostile e amorale, la cultura è bestiale nei suoi dettami stringenti. Des Teufels Bad è un Heimatfilm al contrario.

Ma il vero orrore arriva col nuovo documentario di Andres Veiel, dedicato a Leni Riefenstahl. Un film di montaggio il cui obiettivo è, ancora una volta, armonizzare l’immaginario e correggere il tiro. Il nome Riefenstahl è universalmente noto, eppure il fatto che abbia inventato il film di propaganda sotto Hitler non è bastato, in questi decenni, a connotarla senza se e senza ma come la nazista che era. Il suo fascino, la furbizia delle sue immagini, il suo talento per la menzogna, la messinscena ex post di un coinvolgimento in qualità di semplice mestierante e i ridicoli tentativi di rilancio dagli anni Sessanta in poi hanno fatto sì che Leni, “donna forte”, la facesse franca sul piano del sentito dire. Adorata da Cocteau e blandita da certo femminismo, negli anni Settanta Riefenstahl riusciva ancora a strappare applausi a scena aperta nei talk show della Repubblica Federale, finendo per ricevere sacchi di fan mail che nemmeno papà Natale in Lapponia. Veiel riprende i punti salienti di questa puntata di Je später der Abend (1976) e soprattutto mostra ciò che Ray Müller non poté, o non volle mostrare montando le tre ore di Die Macht der Bilder (1993), un film agiografico tra le righe spesso passato su Fuori orario in un’estatica cornice. Riefenstahl che si morde le labbra dopo aver ammesso via lapsus un amorazzo con “Dr. Goebbels”, Riefenstahl furiosa dinanzi all’accusa che non poteva non sapere (o non poteva non essere), Riefenstahl in pieno trip coloniale ai tempi del “viaggio fotografico” tra i Nubiani, il volume coffee table che avrebbe dovuto dimostrare, a detta sua, che non era razzista. Niente ideologia, solo bellezza. Niente cultura, solo natura: ecco allora i pescetti tra i coralli delle sue immersioni in tarda età, ripresi da Müller ma non da Veiel, riflesso in Technicolor degli stratagemmi scenografici e di tecnica di ripresa ideati per Triumph des Willens e Olympia; riflesso, soprattutto, del film che Riefenstahl ha portato ad esempio fino alla nausea quale manifesto della sua visione del mondo: Das blaue Licht (1932). Una cortina fumogena in cui si son smarriti in tantissimi, perdendo di vista lo spirito völkisch fino al midollo di questo suo film di debutto, le statue vive in stile greco-ariano che aprono Olympia, le comparse rom e sinti per Tiefland (1940; terminato nel 1954) prelevate da un campo di concentramento e ivi rischiaffate, finendo cadaveri. Riefenstahl andò a processo per questo suo ultimo lungometraggio asserendo di averle incontrate tutte, sane e di robusta costituzione, dopo la fine della guerra. Una bugia a cui molti piacque credere, dimenticando tra l’altro che l’opera Tiefland era una delle preferite da Hitler.

Veiel ha ricevuto dalla produttrice, la giornalista Sandra Maischberger, la proposta di fare il film dopo la morte dell’ultimo marito di Riefenstahl, che ha reso accessibile l’enorme archivio dell’attrice e regista. Un archivio organizzato e curatissimo, un guanto infilato sulla sua strategica comunicativa. Riefenstahl ha avuto sessant’anni di tempo per salvarsi dalla damnatio memoriae, cioè da quando nel 1939 la sua ascesa irresistibile si tramutò in una battuta d’arresto. Dopo i fasti del doppio film sulle Olimpiadi berlinesi, che di fatto gettò le basi delle moderne riprese sportive, Riefenstahl venne mandata al fronte in Polonia. Avrebbe dovuto scolpire l’avanzata tedesca nel marmo della propaganda, ma nel giro di poche settimane rinunciò all’incarico. Veiel non ha trovato pistole fumanti di suo pugno nell’archivio, ma tramite la corrispondenza indiretta è riuscito a ricostruire un incidente avvenuto a Końskie, quando più di venti operai ebrei furono fucilati. A quanto pare, Riefenstahl stava girando in strada, un gruppo di persone era al lavoro sullo sfondo, così ordinò “Weg mit den Juden” per ripulire l’inquadratura, un comando che i militari al suo seguito interpretarono in chiave nazista, freddando tutti a un tiro di schioppo dalla cinepresa. Ecco allora, come sottolinea la voce narrante del film, che un’indicazione di regia firmata Riefenstahl provoca un massacro. Nessuna responsabilità?

A più di vent’anni dalla morte della diretta interessata e a trenta dal documentario-intervista di Müller, Riefenstahl di Andres Veiel mette finalmente i puntini sulle i di una carriera senza scrupoli troppo spesso offuscata dal carisma e dalla forza delle immagini. Il film montato da Stephan Krumbiegel, Olaf Voigtländer e Alfredo Castro offre un ritratto a trecentosessanta gradi del suo soggetto, dalle foto favolose degli anni Venti ai film di montagna di Fanck e Trenker, dai tappeti rossi internazionali per Olympia alla sua complicità con Albert Speer, compagno di telefonate e ciaspolate per scambiarsi consigli editoriali e spremere a dovere la rapa della nostalgia nazi di tanti tedeschi. Una lunga performance con faccia di bronzo fino all’ultima apparizione nel 1999, ultranovantenne preoccupata dall’illuminazione che rischia di tradire le rughe. In tv, va da sé, passò solo l’ennesima intervista supina. Veiel ci fa capire come mai attorno a Riefenstahl è nato un mito, ma anche la pericolosità e l’attualità di questo mito fondato sul cinismo intellettuale. Parlare di Riefenstahl oggi significa anche parlare di propaganda – nazionalsocialista, quindi populista ante litteram. L’uomo solo al comando che blatera di pace e lavoro per tutti, che promette mari e monti alla maggioranza acritica regalandole facili emozioni ai danni delle minoranze. Al contrario di Dietrich, Riefenstahl restò in Germania malgrado fosse una star internazionale perché sapeva di potercela fare lì, nell’Heimat, usando la bellezza apollinea come schermo protettivo per l’ultraviolenza. La vera arte degenerata.

ultraviolenza

Titoli di testa del corto Terrifier (2011) di Damien Leone.

Se son sempre qui a parlare di film è perché il 6 dicembre 1992 mia madre insistette per farmi vedere Arancia meccanica. Prendemmo la videocassetta a noleggio in zona Fossolo, a Bologna, in un negozietto tra i palazzi a un tiro di schioppo da uno di quei vecchi centri commerciali angusti e bui, di fatto un corridoio con delle vetrine, che ora si vedono solo nell’Europa dell’Est. Dopo la prima visione del film, a suo tempo vietato ai minori di anni diciotto, non ebbi scelta: fu la natura, non la cultura, a costringermi a rimediare la colonna sonora di Ludovico van con iniezioni psicotrope di Wendy Carlos. Sempre lei, la natura, mi fece rivedere il film almeno dieci volte nell’arco di pochi mesi, da solo o in compagnia di amici da contagiare con questa magnifica ossessione. Ricordo benissimo la qualità miserrima, eppure aurorale, della versione originale – sempre VHS – sulla quale riuscii a mettere le zampe scambiando videocassette come se non ci fosse un domani. Strati su strati di sabbia magnetica, audio distorto, colori sbavati, il tutto a causa della moltiplicazione analogica, quindi organica, quindi mortale come noi, di un master perso nella notte dei tempi. Ricordo benissimo anche la prima proiezione in pellicola di A Clockwork Orange al Lumière di via Pietralata, un evento epocale. Lunga fila per agguantare il biglietto e tutto il film, coi suoi centotrentacinque minuti in tre atti, visto in primissima fila all’estrema sinistra, cranio schiacciato nella nuca e mandibola a terra.

Prima di allora, da quando il videoregistratore si era annunciato nel salotto di casa nel giugno del 1990 in occasione dei Mondiali, avevo cominciato a saccheggiare il videonoleggio di via Massarenti con i miei amici di sempre, soprattutto Fabio, passando in rassegna la sezione horror con la medesima acribia di un bibliotecario alessandrino. Il primo film che riuscii a copiare collegando il VCR a un lettore fu Re-Animator (1985) di Gordon/Yuzna. Tra i nostri preferiti c’erano le due Case di Raimi (L’armata delle tenebre l’avremmo poi vista al cinema), ma anche Profondo rosso, Le colline hanno gli occhi, Zombi (1978), Society e, guilty pleasure prima ancora di conoscere il concetto, Il bosco 1 di Andrea Marfori, esempio da manuale di film così brutto da diventare bello. A tenere insieme tutti questi sanguinolenti tasselli filmici c’era un’idea di cinema vecchia come il cinema, la stessa che anima Häxan (1922) di Benjamin Christensen, Un chien andalou o Freaks (1932) di Browning. Non la violenza in sé, non l’intento pornografico di sbattere in faccia al pubblico immagini forti. Ma la volontà sperimentale, rischiosa e ossessiva di superare dei limiti, trasformando lo schermo in un tunnel risucchiante. Più che Gola profonda, Videodrome. Un approccio che spesso invecchia male, ma in certi casi – A Clockwork Orange è uno di questi – si conserva grossomodo intatto nel corso dei decenni. Se mia madre non avesse premuto, a scopi formativi, affinché vedessi il film di Edel su Cristiana F. in tv (sforbiciato), ora non batterei i tasti da questo appartamentino di Friedrichshain e probabilmente avrei sprecato ulteriori mesi della mia infanzia (avevo dieci anni) senza conoscere David Bowie. La distinzione che si tende a fare oggi tra un horror “elevated”, diciamo quello che fa Ari Aster, e uno colpevolmente basso e anale, è quanto di più vacuo. Lo dice anche John Carpenter. La vera domanda è: ti prende alle viscere oppure no? Ti cambia oppure no? Ti resta dentro, non ti fa dormire o scema insieme ai titoli di coda? Se il cinema non è come l’intestino della creatura aliena di Nope (2022), cinema non è.

Questo mese ho visto in sala due film diversissimi che toccano questi tasti. Il primo è IO di Jerzy Skolimowski. Il titolo scimmiotta il raglio dell’asino, quindi andrebbe mantenuto in originale malgrado circoli soprattutto la versione internazionale, anglicizzata, “EO”. È la storia, o meglio il viaggio in Europa di un somaro, animale a cui Jerzy è molto legato. Il cineasta polacco l’ha scritto insieme alla moglie Ewa Piaskowska, artefice del suo ritorno dietro la macchina da presa nel 2008 col formidabile Cztery noce z Anną, film girato letteralmente attorno a casa in un paesello della Masuria. Insieme hanno poi sfornato Essential Killing (2011), anch’esso un viaggio animalesco, con Vincent Gallo catturato in Afghanistan, sottoposto a waterboarding, in fuga nella neve grazie a un incidente automobilistico e alla macchia nelle foreste forse polacche, forse arcane – foreste e basta. Questa pellicola senza un filo di grasso, un tendine più che una pizza, resta nella memoria perché il protagonista non spiccica parola e si fa largo in uno stato di natura che non lo differenzia dagli altri animali che fanno capolino: lupi, cani, cavalli, persino le formiche che mangia per trarne proteine. L’ultraviolenza di Essential Killing sta tutta nella situazione immersiva e senza vie di mezzo. Girato a temperature ampiamente sotto lo zero con Gallo che brancola a piedi nudi, il film non ha bisogno di mettere in scena la violenza. La sequenza più forte è forse quella in cui il protagonista minaccia con la pistola una madre con neonato sul ciglio della strada per farsi allattare. Il sangue, in tutto il film, si vede a malapena, a parte quello sputato dal fuggitivo a cavallo quando il viaggio, finta fuga, volge al termine. Seppur influenzato dal clima dei primi anni Duemila, con la latenza del terrorismo e l’ombra di Guantanamo, con Essential Killing Skolimowski non fa un Redacted (2007) europeo. Fa, come sempre del resto, un film libero e selvaggio su un outsider, rinunciando ai lacciuoli narrativi che gli hanno sempre azzoppato i progetti meno memorabili.

IO è una versione ancor più distillata di Essential Killing. Stavolta il protagonista non è nemmeno bipede: è un asino, anzi sei asini visibilmente diversi (Marietta, Tako, Hola, Rocco, Ettore, Mela) in viaggio dalla Polonia all’Italia. A scatola chiusa verrebbe in mente Au hazard Balthazar di Bresson, ma Skolimowski non è un autore attento alla trascendenza. I suoi film sono terragni ed epicurei. Inoltre, IO è animato da uno slancio antispecista che l’apologo morale di Bresson non aveva. E sebbene nessuno dei due ceda al lieto fine, non è nemmeno l’amarezza a unirli. Il film di Skolimowski e Piaskowska ha un che di squisitamente vitalistico, di sghembamente visionario, che prescinde dalla sinossi. In questo è persino più potente di Essential Killing. E come nel film del 2011 appare Emmauelle Seigner nel prefinale, qui si palesa una Isabelle Huppert mangiapreti (ma non come ci si potrebbe immaginare). Apparizioni divine che non scombussolano tuttavia l’equilibrio del film, né scalzano il protagonista. L’asino è solo. Manca la sua Anne Wiazemsky. IO è un film sulla libertà della visione. Lasco nella logica, geniale nel tingere di rosso fuoco panorami esplorati col drone o nello scandagliare una foresta coi laser dei cacciatori, spiazzante ma coerente (una coerenza che si intuisce soltanto) nel buttare nel montaggio un cane robot di ultima generazione o una scena sugli sci senza alcun addentellato stringente con la trama. È un film che si sofferma sugli animali – tantissimi – ma non ha alcun problema, come in Essential Killing, a sparare a palla la musica heavy metal di un’autoradio. Ma a differenza di Essential Killing, IO mette davvero in scena l’ultraviolenza. Lo fa di punto in bianco, con la rapidità di un ceffone. Non ai danni degli animali, e soprattutto scansando il sadismo furbo di un Haneke in Caché. Se IO fa piangere, perché fa piangere, non è certo per questo flash che toglie di mezzo un personaggio, spendibile e provvisorio come tutti gli altri Huppert compresa, ma il baluginare di una violenza presentata come un rombo di tuono ci resta dentro e ci accompagna per il resto della visione. Torna in mente la lampada oscillante nel finale di Deep End, che toglie la vita con un “toc”. È il bussare della natura indifferente, al cui servizio siamo ogni tanto anche noi esseri umani, utili idioti.

Dalla natura indifferente ad Art the Clown il passo non è brevissimo, ma se Michael Myers, nelle intenzioni di Carpenter, è sempre stato solo e soltanto una buia forza naturale, allora anche l’assassino in costume di Damien Leone lo è. Che non a caso agisce sempre per Halloween. La saga di Terrifier merita perché ha il rarissimo pregio di imporsi, e funzionare, proprio come una saga nel senso autoriale del termine. Titoli come Halloween, Friday 13 th, Evil Dead, A Nightmare on Elm Street, Scream o Saw sono prima di tutto “content”, diritti che passano di mano e prendono via via forme dettate dai chiari di luna del mercato. Una forma che nel caso di Saw è spesso mutuata dai PowerPoint. Quello che Damien Leone è riuscito a fare fino ad ora, a quindici anni dal primo corto, è mantenere un controllo totale su un personaggio, e una concatenazione di eventi, che nel 2022 con Terrifier 2 sono entrati di diritto nella storia del genere slasher e del cinema viscerale. Se Buono Legnani nella Casa dalle finestre che ridono era un pittore di agonie, Leone è un inscenatore di carneficine. E qui l’analisi inizia e finisce, perché non c’è molto altro da dire. Il trucido in sé e per sé è già antiquariato, e per farsene un’idea bisogna proprio tornare a quegli anni Settanta che segnarono uno scatenamento, a volte da vomito, delle immagini sullo schermo. Ma a rendere unico il marchio Terrifier vi sono almeno due ingredienti: l’aura di Art, degna di Füssli, e la costruzione pezzo dopo pezzo di un immaginario efficace, a tratti davvero terrorizzante. Una graduale messa a fuoco. Nel “Nono girone”, il suo primo corto, Leone lancia subito in scena Art (interpretato da Mike Giannelli) nella forma di un clown-stalker che fissa la propria vittima, la provoca con una trombetta e dopo averla disgustata con un mazzo di fiori con bacarozzo la mette fuori gioco con una iniezione. Il resto di questa prima celluloid atrocity è meno ipnotico, e funge semmai da portfolio per l’arte artigianale di Leone. C’è, questo sì, una scena inguardabile e irraccontabile, paradigma che resterà in ogni singola opera del regista, ma in The Ninth Circle l’ultraviolenza fine a sé stessa fa un bel buco nell’acqua. La trombetta di Art arriva più sottopelle.

Risale al 2011 un secondo corto, intitolato Terrifier e incentrato unicamente sulla figura del clown. Qui si gettano le basi reali del personaggio, compreso il paradosso di fondo che lo rende così appetibile in ambito horror. Art è un uomo in carne e ossa vestito da clown, quindi non una creatura infernale come Pennywise, eppure non muore mai. Lo si può tramortire, gli si può far male, ma dopo un po’ si rialza sempre. E ovunque tu vada, a piedi o in auto, alla fine ti becca. Magari lo hai alle spalle e sta per rigirarti un coltellino nella caviglia. Dal punto di vista tecnico, il primo Terrifier sceglie una fotografia sgranata e tendente alla seppia che “antica” il digitale, simulando quasi un found footage risalente ai tempi dell’horror ruspante. Interessante poi come sia questo corto, sia il film del 2016 siano disponibili in alta qualità nell’Internet Archive. Il 2013 è l’anno del lungometraggio All Hallows’ Eve, progetto interessantissimo sotto il segno del non si butta via niente. Leone costruisce una cornice – sempre la notte di Halloween – in cui due ragazzini accuditi da un’amica dei genitori trovano nella sacca delle caramelle una videocassetta misteriosa, contenente… Il nono girone, il primo Terrifier e un segmento nuovo, imbarazzante nella sua bruttezza, con un alieno assassino che sembra uscito dai film di Ed Wood. Ma questo il regista lo sa, tant’è che Ed Wood è proprio tra le citazioni scoperte (insieme al Romero anno 1968) che filtrano dagli schermi guardati dai vari protagonisti dei suoi film. Questa videocassetta non si limita però a spaventare, e come in Lost Highway finisce per contaminare la realtà. L’arrivo soprannaturale di Art nell’hic et nunc del film si accompagna a un erroraccio e a una scena finale, ancora una volta, inguardabile, anti-woke e, come si diceva anni fa, da denuncia. L’erroraccio, che non si ripeterà più, è la risata udibile di Art mentre tenta di spaccare dall’interno lo schermo televisivo. Art the Clown è un Marcel Marceau dedito agli smembramenti. Parla solo coi gesti. Non emette gemiti nemmeno quando si ritrova con la sua stessa mazza chiodata in testa. È questo suo silenzio tombale, accompagnato a un’espressività da commedia dell’arte, a renderlo un incubo ambulante. Il suo superpotere? Le risate mute che si fa reagendo allo sconcerto di chi assiste ai suoi macelli.

Terrifier (2016) è il vero gioiello della serie. Da questo momento, sotto il costume bianco e nero c’è David Howard Thornton, che raffina la fisicità di Art. Il pagliaccio umorale col sacco della spazzatura in spalla, sacco che lo trasforma in un Eta-Beta ammazzasette, si fa strada per i seminterrati, i cessi e le altre location laide del film come una figura perfettamente definita, un archetipo horror che attrae e respinge. Art è un bambino che si succhia il pollice in grembo a una specie di Log Lady con bambola appresso, Art si atteggia a donna indossando – letteralmente – il busto e lo scalpo della sua ultima vittima, Art spunta dalla terra come una talpa primordiale e, a mo’ di zombi risorto in base a regole che non c’interessano, torna in campo nell’ultima scena con una pallottola nel cranio dopo una tempesta elettrica, escamotage non dissimile da quello adottato per Mr C. nella Part 8 di Twin Peaks – The Return (2017). Molto meno esplicito di Terrifier 2, il primo capitolo ufficiale della serie lavora sulla tensione e presenta la final girl a metà film, sacrificando la protagonista iniziale in base al medesimo minutaggio di Psycho. La scena inguardabile non manca ed è, be’, inguardabile.

Terrifier 2 (2022) va visto in sala. A colpire, in questo film graziato dal passaparola, è prima di tutto la durata. Due e ore e venti. Normale per un film di Kubrick o Lynch, rarissimo per un film horror che sguazza senza tema nell’alveo del genere. Ma in tempi di crisi delle sale, anche la quantità conta. E stavolta Leone piazza pure una sequenza fondamentale in mezzo ai titoli di coda, strizzando l’occhio alla più grossa fabbrica di blockbuster degli ultimi vent’anni. Impeto anni Settanta, colonna sonora che flirta con gli Ottanta, giochini meta degni del Wes Craven anni Novanta e una confezione che non disdegna le regole di mercato del nuovo millennio. Ciliegina (in realtà un occhio strappato) sulla torta: un clown che fa paura e che, incredibile ma vero, non esce dalle pagine di Stephen King e non è nemmeno un pupazzo come quelli, pericolosissimi, provenienti dallo spazio profondo. E mentre Alex DeLarge canticchiava Singin’ in the Rain, in questo lungo tunnel dell’orrore serpeggia la melodia del Clown Café. Legittimo aspettarsi un terzo episodio ancora più azzardato, e dopo il terzo un bel cofanetto – di VHS.

Titoli di testa di Terrifier (2016) di Damien Leone.