Rosa è Rosa è Rosa

Dettaglio della copertina di Sex und Karriere (1976), ritratto di Rosa a opera di Millie Büttner

“Molti troveranno i miei film cinici e dilettantistici. Sono noto per farmi beffe dei miei attori. Il mio racconto autobiografico sarà considerato superficiale e pornografico. È schifosamente privato e proprio per questo motivo mi interessa renderlo pubblico, poiché al mondo ci sono un sacco di troie frocie e una società che crede sempre di essere migliore di loro. Non ci restano che autoconsapevolezza e orgoglio”.

Questo colpo di scudiscio è la stringata prefazione del libro-non-libro Sex und Karriere, uscito nel 1976 e inedito in Italia. Più che un libro, un catalogo egomaniaco, una filmografia completa di sinossi e specifiche tecniche per un autore attivo da meno di dieci anni, già prolifico ma sicuramente non ancora pronto per essere musealizzato. Rosa, va da sé, era di diverso avviso. Il volumetto contiene qualche riflessione sull’impatto di Nicht der Homosexuelle ist pervers, sondern die Situation, in der er lebt (1971), tuttora il suo film più influente, un’ottantina di pagine infarcite di immagini e documenti battuti a macchina di questo benedetto resoconto autobiografico steso a New York nell’inverno 1975/76, interessante solo per completisti, e il resto è una congerie di scartoffie e articoli di giornale a corredo della filmografia. Una trentina di titoli. Rosa von Praunheim è morto pochi giorni fa chiudendo un’opera inarrestabile e difficilmente scontornabile di oltre 150 film, per tacer del resto.

Tutti, nel mondo germanofono, sanno chi è e si sono sentiti a disagio almeno una volta per via delle sue dichiarazioni. Fuori dalla Germania, e fuori dalla bolla cinefila, Rosa stinge. Il primo mediometraggio che vidi, Can I Be Your Bratwurst, Please (1999), protagonista Jeff Stryker e girato in Ammeriga, è un inganno. Diverte, è camp, sembra un John Waters ripulito o un porno soft col freno a mano, ma gli manca l’energia grezza, l’orgogliosa approssimazione tipica di Rosa, che quando per un breve periodo ebbe una relazione con Werner Schroeter generò un clamoroso ossimoro stilistico. I film di Rosa sono svelti, brutti e cattivi, spesso contenutisticamente opinabili o volontariamente grossolani nella loro argomentazione. Non gli è mai interessato raffinarsi, da barricadero com’ era di un’idea di attivismo personale, fin troppo innamorato di New York (oggi si direbbe escapismo, esotismo, provincialismo puro) ma così tedesco da essere interessante di rimbalzo. La Germania ha in Rosa una figura monumentale che non tutti i Paesi hanno.

Grandioso, Rosa, lo è sempre stato nella cura della propria immagine, una sorta di Carmelo Bene del popolo, un Aldo Busi che vive sul palcoscenico del Costanzo Show. Leggendari i suoi cappelli, le sue mise da spettacolaccio del sabato sera, ma anche la nonchalance con la quale andava in giro per la Berlinale come un Holger qualsiasi (all’anagrafe è Holger), senza copricapi né colori sgargianti. Rosa c’era sempre. Rosa di Praunheim, quartiere francofortino, ha lasciato una traccia indelebile nel discorso pubblico tedesco, tematizzando la “condizione omosessuale” senza far sconti a nessuno, soprattutto a noi omosessuali, abbracciando le misure di prevenzione durante la crisi dell’AIDS in maniera ancora più radicale di chi, di prevenzione, si occupa davvero (e pestando, nel farlo, un paio di grosse merde bilanciate dalle migliori intenzioni), schiacciando il pedale sul fronte della visibilità con la sua famosa, sgarbatissima azione di outing di personaggi noti, e infine fungendo da mentore per i suoi Rosakinder – Chris Kraus, Axel Ranisch, Julia von Heinz, Robert Thalheim, Tom Tykwer. Talenti diversi che sono riusciti ad affermarsi grazie ai consigli pratici di Rosa, a partire dalla regola d’oro della messinscena: esporre, mettere in difficoltà, documentare lo scontro.

La ridda di film di finzione, documentari, ibridi, corti e cortissimi, casalinghi e a zero budget firmati Rosa è un getto d’acqua color arcobaleno con la potenza di un idrante. Ti stende, e non sai esattamente cosa ti ha steso. Mettersi lì a voler studiare tutto rischia di essere una strategia punitiva. Il suo merito risiede più che altro nell’approccio maturato in quasi sessant’anni di attività, ovvero la compilazione di un’enciclopedia vecchio stampo del’immaginario e del pantheon LGBTQ made in Germany. Scremando le molte cose girate allo specchio, come l’ultimo, inguardabile Satanische Sau, conviene leggere Rosa come un cronista che incontra un Mario Wirz sfinito ma mai sconfitto, punzecchia Ralf König, indaga il mondo della prostituzione maschile a Berlino Ovest o tenta di raccontare la biografia di Magnus Hirschfeld. Con uno sguardo, questo sì, rimasto intatto da decenni: molto occidentale (nel senso di Berlino), estremamente GLBT (con L e T minoritarie) e convinto che basti la sfacciataggine per far funzionare un film. Da avanguardia scomoda, col passare del tempo Rosa è diventato una statua equestre vivente. Forse inevitabile. E peccato che nessun*, almeno in Germania, sia riuscito a riempire i vuoti. Ma se si parla di cultura frocia, Rosa ha scritto la Treccani e se l’è cucita addosso. A noi il compito di sfogliare prendendo appunti.

Il cuore della mostra autocelebrativa allestita a Berlino Ovest sul finire del 2012, Rosen haben Dornen (le rose hanno le spine), era un fantoccio di Rosa steso in posizione da salma su fondo nero, con tre cappelli che gli fluttuano sopra a mo’ di angeli. La morte di Rosa, questo il titolo. Da ipocondriaco furente che era, tanto da fare un film sulla propria ipocondria, Rosa è riuscito a superare indenne due pandemie e a fare tutto quel che voleva, compreso un romanzo, compresi dei disegnini incorniciati ed esposti in gallerie bene. Proprio in una di queste ultime occasioni sono riuscito a parlargli, porgendogli una rosa – fornita agli avventori a questo scopo – mentre troneggiava mascheratissimo e immobile tra i suoi quadretti. Grazie per il prossimo film, gli dissi all’epoca del suo ottantesimo compleanno, sicuro che l’opera in questione esistesse già, girata e montata in quattro e quattr’otto, pochi giga salvati sul desktop.

Perché Rosa von Praunheim è importante ancora oggi? Perché lo è il messaggio che conclude il suo film più famoso: Raus aus den Toiletten! Rein in die Straßen! Freiheit für die Schwulen! Basta sostituire i cessi con internet e il gioco è fatto. Battere digitalmente non è peraltro la stessa cosa di battere in carne e ossa, in un cesso o in un parco, in un locale o per strada, con le antenne dritte e il corpo che tracima sfrontatezza. Il desiderio di libertà espresso dagli anni Settanta, con la sua grana grossa, ha ormai ceduto il passo a una normalizzazione dello stigma, o a una normalizzazione del far finta di niente. Siamo tutti avatar farlocchi, asessuati, invincibili. Oggi più che mai c’è bisogno di sana, concreta audacia senza tanti fronzoli. Rosa dovrebbe diventare il metodo vincente di un nuovo attivismo da contrapporre alle forze tiranniche, ipocrite, conservatrici o, peggio ancora, pavide e indifferenti. Da rosa, come il triangolo rosa, a grimaldello (come Dietrich, Marlene).

A pagina 11 di Sex und Karriere si conclude così il breve testo intitolato Nach dem Schwulenfilm, Dopo il film frocio – correva l’anno 1976: “Il film ha cinque anni, ma è più attuale e necessario che mai. In tutto questo tempo non è mai stato girato un film sui froci che avesse un carattere emancipatorio. Solo merda commerciale come Festa di compleanno per il caro amico Harold, autocommiserativa come Il diritto del più forte di Fassbinder, che a quanto pare è ambientato solo per caso nel mondo gay, migliaia di porno stupidotti o robaccia underground à la Warhol che concepisce i froci solo come delle strane creature. Il lavoro dei gruppi è andato scemando. In America le attività si sono via via spostate dalle grandi città alla campagna, il che è molto positivo. Da noi nascono vari gruppetti di breve durata, i vecchi scompaiono. Gli eroi sono stanchi ormai: la rivoluzione non diverte più nessuno (e non solo tra noi froci). Oggi non sarei più riuscito a realizzare questo film per la televisione, sarebbe stato vietato in quest’epoca conformista. A volte penso di fare un film commerciale: una storia d’amore tra due uomini che descriva il kitsch ma anche gli sforzi emancipatori. Per i quali bisogna attivarsi, altrimenti si perde il coraggio e la voglia di insistere. Perché il lavoro su sé stessi e gli altri è faticoso, e io stesso ultimamente me la sono presa comoda, ritirandomi nel mio illusorio mondo artistico. Già, io stesso soffro per la medesima situazione inumana, il sesso anonimo, la difficoltà nel trovare il partner giusto con cui scopare ma anche parlare, una persona che io possa accettare sul piano umano e intellettuale e viceversa. Un sogno?”

zitti mai

Voi li conoscete i vostri privilegi? Io i miei sì. Tra questi annovero senza dubbio la chance, acchiappata nel 2015, di vedere How to Survive a Plague in un’aula magna della Humboldt, quella che sarebbe diventata la mia università. Conoscevo già il documentario, ma ad accompagnare la proiezione c’era un padrino speciale, vale a dire Peter Staley. Piansi come una fontana – lo ripeto spesso ma è così – e alla fine mi alzai con la mia maglietta nera da PLWHA sulle barricate e dissi a Peter quello che decine di persone continuano a dirgli ancora oggi, cioè che è un eroe. Poi lo rimorchiai per una passeggiata con pizza conclusiva nei pressi del Monbijoupark, con qualche amico, e a un certo punto dovetti scappare ché il cane chiamava. Questo un primo privilegio. Un secondo è quello di aver intervistato David France alla Berlinale 2020, quando ha presentato Welcome to Chechnya. Prima di parlare dei misfatti di Kadyrov l’ho ringraziato per come ha dato voce agli attivisti americani degli anni Ottanta e Novanta, a partire dall’icona Staley. Se non fosse per Staley, questo il messaggio cifrato, non sarei qui. Ma quella dei privilegi è un’altra storia.

Qui vorrei parlare di tre libri fondamentali per comprendere le reazioni alla pandemia di Hiv/Aids che imperversa, riconosciuta come tale, da esattamente quarant’anni. Sono tre testi divulgativi, leggibilissimi anche per chi non mastica i power point scientifici, con un difetto di base che è meglio snocciolare subito. Malgrado qualche accenno politicamente corretto, si ha l’impressione che al di fuori degli Stati Uniti si estenda un territorio nebuloso e leonino contrassegnato da nomi generici come “Africa”. Quella dell’americanocentrismo nella narrazione dell’Aids è una lacuna vecchia come il virus che va colmata solo e soltanto in prima persona, cioè col tentativo di fare alzare nei ranking – anche al di fuori dell’accademia – storie diverse, non solo anglofone e non solo centrate sui poster newyorkesi Silence = Death. È ovviamente un tema di soft power a stelle e strisce e di egemonia nell’affrontare l’immaginario pandemico fin dai tempi di An Early Frost e Parting Glances. I tentativi virtuosi in ambito audiovisivo non mancano, un po’ Vecchiali, un po’ questa miniserie svedese che fa impallidire It’s a Sin. Ma sul fronte dei memoir è difficile uscire dai confini statunitensi, perché altrove manca il mito. Quindi dobbiamo accontentarci di questi testi in cui la Francia appare per gentile concessione di Montagnier, 120 BPM e Act Up Paris (peraltro criticato), mentre l’Africa acquista un minimo di silhouette grazie alla storia horror del negazionismo di Thabo Mbeki. Un altro aspetto importante riguarda la presenza sparuta delle donne – con qualche eccezione di rilievo come Maria Maggenti: da approfondire – o delle persone trans*. I volumi che sto per citare sono usciti dalle tastiere di maschi bianchi, cis, wasp. Tutto questo non ci piace? Non ci basta? E vorrei anche vedere. C’è un sacco da fare, e solo chi si sente ai margini dei racconti altrui può farlo davvero.

Il motivo per cui scrivo questo articolo è la recente uscita dell’autobiografia di Peter Staley, Never Silent. ACT UP and My Life in Activism, Chicago Review Press. Prenderò in esame anche una vecchia lettura come Body Counts. A Memoir of Activism, Sex and Survival (Scribner, 2014) di Sean Strub, e lo straordinario volume di David France che reca il medesimo titolo del documentario ma, con le sue seicento e passa pagine, fa molto altro e molto di più: How to Survive a Plague. The Story of How Activists and Scientists Tamed Aids (Picador, 2016), già affrontato su questi pixel.

Strub, attuale sindaco democratico di Milford, è una colonna dell’attivismo LGBT+ americano. Esperto di fundraising, nel corso degli anni ha dato una mano a tutte le associazioni in prima linea e nel 1994 ha fondato POZ, rivista “impossibile” in quanto univa un approccio patinato al tema dell’Aids, proprio quando le morti a livello mondiale stavano toccando il picco. Lo stesso Strub ha visto la morte in faccia, con un nadir di un CD4 (in cifre: 1). La conta dei CD4 è il principale indicatore di un buon sistema immunitario. Dovrebbe stare sopra le 500 unità. È questa prospettiva a rendere preziosa la testimonianza di Strub, che nel 1995 si è persino sposato con una cara amica per garantirle la reversibilità dell’assicurazione sanitaria. Il miracolo scientifico del 1996 l’ha salvato per i capelli, e sulle pagine di POZ ha potuto monitorare la metamorfosi del discorso pubblico sull’Aids, sia da un’ottica scientifica, sia da quella della vita di tutti i giorni. Nel giugno 1997, POZ fu il primo medium americano – e probabilmente mondiale – a parlare di un nuovo trend, il barebacking.

David France è sieronegativo. Sia il documentario, sia il volume mettono in evidenza un metodo di lavoro certosino, quasi ossessivo, che si fa garante di una narrazione pressoché esaustiva. A mio modesto giudizio, e immodestamente credo che questo giudizio sia stato condiviso da Staley al momento di ideare il proprio memoir, France sbaglia nell’inserirsi troppo nel racconto, introiettandovi addirittura le paure – o le false certezze – relative alla contrazione del virus. La sua figura, nobilissima, è semmai quella di un Adso che raccoglie i fili della storia dopo troppi anni di silenzio e sottovalutazione. Infatti il documentario si è rivelato uno strepitoso grimaldello per riattivare l’attivismo e persino la ricerca scientifica in ambito Hiv/Aids, con l’introduzione della profilassi pre-esposizione, e il tomo rappresenta la migliore lettura possibile per orientarsi nel groviglio di quegli anni bui. France sceglie di concluderlo a Vancouver, nel luglio del 1996, quando furono resi noti gli esiti incoraggianti dell’introduzione di una nuova classe di antiretrovirali. E qui viene il bello.

Col suo libro, Peter Staley sceglie di appropriarsi della narrazione che lo riguarda. È come se uscisse dalle maglie – lusinghiere e puntuali – dei compendi a firma France per offrire di sé un’immagine senza filtri, a comincire da quello temporale. Per ovvi motivi di spazio, France non si spinge oltre il 1996. Ed è il medesimo errore, anche se dovuto alla pigrizia mentale, che compiono quasi tutti i prodotti di largo consumo che parlano di Hiv/Aids, scambiando la terapia efficace con la cura e quindi ignorando sia i significati profondi dello status undetectabile (viremia non rilevabile, ergo impossibilità di trasmettere), sia i mille altri aspetti di una pandemia ancora in corso, non più mortale solo per chi ha accesso ai farmaci e a servizi sanitari adatti. Staley non racconta i soliti quindici anni in forma di tragedia con lieto fine (tra mille virgolette), bensì azzarda un affresco quarantennale a tutto campo che diventa interessante proprio quando si spinge oltre il 1996 e instaura un dialogo tra il prima e il dopo.

Ex broker di Wall Street, “nell’armadio” fino alla diagnosi e oltre, Staley ha vissuto l’entrata in contatto con Act Up come una rivelazione. Non è un caso che il sottotitolo del libro ponga l’accento sull’Activism così come quelli di Strub e France ricorrono rispettivamente a “Survival” e “Scientists”. Per quanto non isolato, e non potrebbe essere altrimenti in un movimento rizomatico come l’Act Up newyorkese dei tardi anni Ottanta, Staley riuscì a diventare, parole sue, il poster-boy dell’attivismo sieropositivo, e una volta archiviata l’esperienza di Act Up ha sempre saputo trasformare in azioni concrete e ficcanti quel fuoco che brucia – facendo un male cane – in ogni attivista per i diritti civili. A guidarlo non è solo una mentalità pragmatica ed escoriante che può ricordare Bret Easton Ellis, ma anche e soprattutto un intuito, e un genio per la stoccata, che l’hanno fatto entrare nella storia e gli hanno salvato la vita.

A salvargli la vita, ad esempio, è stata l’intuizione che il dosaggio dell’AZT (zidovudina) prescritto dalle linee guida dell’FDA fosse sbagliato. Tant’è che prima interruppe la somministrazione, poi la riprese riducendola di un quarto e accostandola all’uso quotidiano di un altro antiretrovirale, il ddI (didanosina). Con questo paso doble che oggi si chiama duoterapia è riuscito ad arrivare al 1996 con un nadir mai inferiore alle 100 copie per millilitro cubo. E nel libro, un’onestà intellettuale specchiata gli fa aggiungere che alla sua sopravvivenza hanno contribuito in maniera cruciale anche la sua condizione economica privilegiata e l’ottimo rapporto con la famiglia. Il capitolo sull’AZT è importante perché smonta un cliché solidissimo – quello dell’antiretrovirale killer – e lo fa senza lisciare il pelo alle case farmaceutiche. La verità è che, se prendiamo il 1994, i farmaci a disposizione erano quattro, si sperimentava a tamburo battente e il motto di Act Up “drugs into bodies” andava di volta in volta applicato in maniera sensata e non ciecamente ideologica. Moltissime persone nello stadio terminale decisero di ricorrere all’AZT perché non avevano nulla da perdere, e così è nata la leggenda del farmaco brutto, sporco e cattivo (in termini di anemia, davvero cattivissimo). Qualsiasi monoterapia è destinata al fallimento, ma questo lo sappiamo oggi grazie alle sperimentazioni di ieri.

Quanto alle stoccate, vale la pena guardarsi con attenzione il video del suo discorso alla conferenza mondiale Aids del 1990. Un discorso rischioso che France riporta integralmente nel suo libro. Staley rischia perché, all’epoca, c’era ancora un presidente repubblicano sordo alla pandemia e, soprattutto, la linea rossa che separava i camici bianchi dalla marmaglia dei pazienti era accecante. Inoltre, Act Up si era fatta conoscere con azioni a volte estreme, lontane anni luce dalla sensibilità mainstream. Staley riesce a far saltare tutti in piedi, detta loro degli slogan da manifestazione di piazza e ha la sensibilità di concludere citando Vito Russo, che ad Albany due anni prima aveva pronunciato parole definitive sulla crisi dell’Aids e sulla necessaria risposta dal basso. Cionostante, la stella di Staley divenne incompatibile con la mancanza di centro di un’organizzazione come Act Up, tant’è che la sua successiva zampata andò a segno con un altro acronimo. Staley esce dalla Aids Coalition to Unleash Power e co-fonda TAG, Treatment Action Guerrillas (poi rinominato Group per esigenze di fundraising).

Staley tells it like it is. Per esempio, accredita al Dr. David Barry l’intuizione geniale della terapia triplice, fissa al febbraio 1996 in quel di Washington il momento in cui si capì che la strada era imboccata (e le lacrime di Spencer Cox alla conferenza, sentendo parlare del ritonavir, sono anche le nostre), spiega come il test per la carica virale iniziò a essere usato su larga scala solo a partire dal 1995. Se si pensa che il test per l’Hiv è stato introdotto solo nel 1985, diventa lampante come in assenza di strumenti che oggi diamo per scontati in quegli anni si andasse veramente a tastoni, ma questa è piuttosto materia del libro di France. Staley si diverte soprattutto a raccontare la sua raffica di scopate anni Ottanta, e vede sotto questa lente – cioè quella dell’invecchiamento, della rabbia da lipodistrofia, dell’uscita dal mercato – la sua successiva dipendenza dal crystal meth, che gli ispirò un second coming come attivista di punta a inizio millennio.

Never Silent si spinge oltre le consuete frontiere dei discorsi sull’Hiv/Aids, perché è la storia di una dipendenza positiva. Quella dall’attivismo, costosissima in termini di risorse e di tempo ma impagabile agli occhi del progresso sociale. Staley muore e rinasce continuamente tra le pagine del suo libro: a metà anni Novanta vaga per le conferenze con addosso la frustrazione di essere stato una meteora, ma sa comprendere al volo ogni cambiamento di fase. Ecco allora la sua campagna shock contro quello che oggi chiameremmo chemsex, poi la creazione del sito aidsmeds.com (fagocitato dieci anni dopo dal poz.com di Strub, suo periodico partner in crime), e ancora la rinascita grazie al documentario di France, la lotta – tuttora in corso! – per un’introduzione equa e accessibile della PrEP, e infine il Covid. Sempre in prima linea, e sempre più vicino al suo obiettivo originario, che era quello di diventare politico di vaglia – o almeno consigliere del presidente.

Su questo sfondo si staglia una delle sottotrame più interessanti del volume, vale a dire i rapporti con Fauci. Anche il “buon dottore”, come lo chiama ironicamente Staley a un certo punto, è sulla piazza da quarant’anni, sempre in posizioni di potere – e spesso in contrasto con movimenti grassroot come Act Up. Staley ha l’intelligenza di evitare sia l’agiografia, sia la demonizzazione di questo personaggio assurto a gigante negli ultimi due anni, e trova il coraggio di andare sul personale dedicandogli l’ultimo capitolo. Sono righe ancora più stimolanti del capitolo-scoop sulla travagliata lavorazione di Dallas Buyers Club, in cui Staley avrebbe dovuto fare un cameo e ha invece funto da consulente salvifico. Ebbene sì: il filmone etero sull’Aids, con fior di Oscar (anche a un maschio cis che veste panni trans*) all’inizio grondava negazionismo.

“I’m amazed I’ve lived this long”, scrive Staley nelle ultime righe di questo libro che nelle sue intenzioni dovrebbe rimanere un unicum. Lo spero anch’io, perché ha le carte in regola per diventare il Night of the Hunter dell’attivismo LGBT+. Preferisco però chiudere riportando l’excipit di How to Survive a Plague, uscito dai polpastrelli di David France. È una conclusione su cui si può discutere, ma proprio per questo è bella e commovente. Siamo alla conferenza di Vancouver nel 1996: “A man I did not know put his hand on my cheek, startling me. He turned my face toward his. He was perhaps in his mid-twenties, blue-eyed and radiant. He didn’t speak. With a thumb, he wiped my cheeks, then kissed me on the lips, the kiss that Pericles gave Aspasia to awaken the Golden Age. It was not over. It would never be over. But it was over” (p. 509).