Dettaglio della copertina de La più pallida idea, comma22, Bologna 2009.
Trasmetto questi dati dai polpastrelli alla tastiera, in quel di Berlino Est, in lingua italiana, lanciandoli via rete al server del blog con sede fisica nella Silicon Valley. Oggi è il 27 gennaio, giornata di una tristezza abissale nonché anniversario (quest’anno, il quarto) della morte di Odin. Malgrado ciò, prestando fede al color lampone della copertina riportata qui sopra, il tema di questa orecchia di gennaio vuole essere vispo. Un rossastro antico.
All’inizio della mia carriera di traduttore editoriale riuscii a vedermi accettare due proposte. Contando che il colpo gobbo m’è riuscito solo altre tre volte (una delle quali, tamugnissima, vedrà la luce questo autunno), la categoria più adatta è “fortuna del principiante”. In entrambi i casi m’imbattei nei volumetti tra gli scaffali ombrosi di una biblioteca di quartiere sulla Grünberger Str. che non esiste più, chiusa e assorbita per far nascere la Pablo-Neruda-Bibliothek sulla Frankfurter Allee. Il primo era Keine Ahnung (1999) di Karen Duve, suo esordio per Suhrkamp con una raccolta di racconti tra il favolistico e il fantozziano. Il secondo, Söhne und Planeten (2007) di Clemens J. Setz, debutto narrativo di un autore nerd destinato ad agguantare il Nobel (si accettano scommesse).
Alla buona riuscita di queste imprese, purtroppo scarsamente redditizie in termini di vendite, contribuirono da un lato Francesca Guerra per comma22 – che con La più pallida idea aprì alla narrativa classica dopo essersi fatta un nome col fumetto – dall’altro Claudia Crivellaro per gran vía, a sua volta in un periodo di sperimentazioni che esulavano dalla storica impostazione ispanoamericana della casa editrice. Setz, in particolare, venne accolto da una recensione sul domenicale del Sole in cui si faceva a pezzi il mio lavoro, “infedele” e truffaldino. Il recensore, che aveva meticolosamente confrontato originale e traduzione, non poteva sapere che in alcuni punti avevo chiesto e ottenuto dall’autore il permesso di intervenire anche sul piano del contenuto, togliendo un paio di righe e aggiustando un menu in cui il pesce era considerato dieta vegetariana – o forse aveva un prurito da grattare con una bella stroncatura cattedratica. Grattò. Gli scrissi, mi rispose con una mano sola (l’altra teneva su la punta del naso). Acqua passata. Ora con Setz ci sta provando La nave di Teseo, forte dell’ottimo contributo della collega Francesca Gabelli.
I racconti di Duve ebbero miglior fortuna. Riporto qui la recensione di Giuliana Olivero apparsa sull’Indice:
“Tragicomico, grottesco, paradossale: categorie inevitabili, quando si va alla scoperta di Karen Duve (scrittrice ‘nata ad Amburgo nel 1961’ che ‘vive in campagna con un bulldog, due polli e un mulo’, dalla quarta di copertina) e dei suoi racconti, usciti in Germania ben undici anni fa e ora disponibili in italiano grazie alla traduzione di Simone Buttazzi, che nella sua nota a fondo libro definisce l’autrice ‘cane sciolto nell’ambito della letteratura tedesca contemporanea’. Quegli stessi cani da lei molto amati, sia nella vita reale che nelle sue storie, come il ‘grosso collie tremante’ dalle ‘gengive color lombrico’ e dal ‘fiato fetido’ che bussa alla porta in una sera di pioggia e viene fatto accomodare in salotto, intrattiene una conversazione con la protagonista e resta a consolarla quando l’amico la abbandona brutalmente (Un cane alla porta). In effetti sono tante, in questi racconti fulminanti e stralunati, le incursioni nel mondo animale (maschi del genere umano in primo luogo), catalogate nella nota del traduttore tra le ‘magnifiche ossessioni’ di Duve insieme ad ‘Amburgo e dintorni, gli anni Ottanta, l’attrazione-repulsione per la burocrazia’, tutti temi ricorrenti nella raccolta, insieme a rapporti familiari più che disastrati. Il racconto di apertura, Un rifugio tranquillo sotto una coltre di neve, il più lungo dei nove, è un innesto di memorie di infanzia, di adolescenza e di presente, inclusa la rieducazione alla vita dopo la morte della madre e un incendio che le distrugge la casa, di una giovane donna lavorativamente precaria, affettivamente disadattata e mentalmente dissociata; seducente la presenza di una piovra fra le gambe di una vecchia signora, risucchiante archetipo materno che viene però infilzato a morte dalla protagonista, la quale, dopo aver sconfitto tutte le sue madri, trova, rinchiudendosi in una casa sepolta dalla neve, ‘una pancia di balena’, ‘calda e comoda’ che le permette di occultarsi al mondo. Tra spogliarellisti maschi ed esperimenti di prostituzione, stordimenti da psicofarmaci e allucinanti esperienze come telefonista di un giornale e all’ufficio delle imposte, si susseguono schegge di vita di ragazze/donne che sono naturalmente sempre la stessa, colei che non ha ‘la più pallida idea’ di come ha fatto a diplomarsi, e che finisce a fare l’autostop nel deserto americano, ben sapendo che ‘i problemi con i camionisti cominciano quando fa buio’.”
Karen Duve era già stata portata in Italia una prima volta nel 2003 (Romanzo della pioggia, Bompiani), e dopo la pubblicazione de La più pallida idea è stata adottata, per un breve periodo, da Neri Pozza (Taxi, 2010, trad. di Riccardo Cravero; Anständig essen, 2012, trad. di Francesco Porzio). Di quest’ultimo testo, il cui titolo originale recita letteralmente “mangiar perbene”, mi sarei occupato molto volentieri, visto che Duve dà sempre il meglio di sé in situazioni estreme – in questo caso, descrivendo il suo graduale approdo al fruttarismo. Pochi anni più tardi ebbi modo di intervistarla per Vegan Italy, sebbene non fosse più neanche vegana. Io, per la cronaca, non lo sono mai stato. Ora Duve non scrive favole marce, bensì biografie storiche con un bel twist femminista.
A suo tempo, cosa che oggi non farei mai, scrissi due postfazioni per La più pallida idea e Figli e pianeti. Le riporto qui scansionate. Rileggendole, oltre a una voglia di NdT che m’è passata da un pezzo – adesso, se proprio, ringrazio chi m’ha aiutato nel lavoro – c’è un senso di divulgazione pre-internettiana bizzarro forte, perché all’epoca internet non era certo una landa desolata. Un raccogliere i cocci con la scopa, più per radunarli che per pulire il pavimento. Modernariato, ormai. Gli estremi bibliografici del romanzo di Setz sono: Figli e pianeti, gran vía, Narni 2012. Buona lettura incartapecorita.
Dall’indice di Storie sudate – il lavoro al tempo della crisi, Marco Del Bucchia, Massarosa 2012.
Nel primo pomeriggio di domenica 16 aprile è morto uno dei miei migliori amici, Stefano. Ci penso ogni giorno. Ogni giorno ho l’istinto di scrivergli. Ogni giorno mi domando: cosa ne pensa Stefano? Qual è la sua posizione? Niente condizionale. Tutto quello che so di politica lo so grazie a Stefano. E non sono l’unico a poterlo dire. Insieme a lui ho vissuto gli anni più intensi e sensati nell’alveo dell’attivismo LGBT+. Al suo fianco, spesso inevitabilmente con gli occhi piantati su di lui, le sue movenze, le orecchie apertissime per captare le strategie oratorie, i concetti grimaldelli, le parole giuste al posto giusto. Le trappole, anche. Stefano è morto, giovane, con quarant’anni di attivismo vibrante alle spalle, sinistra vera ma non ideologica, adattiva per cambiare le cose. Per provarci. Per rischiare, sempre, e vedere l’effetto che fa. Stefano, che lavora nel sociale, è un educatore nel senso più alto del termine. Il suo stile è leggendario. Ho recuperato un suo racconto apparso su una piccola antologia brossurata alla meno peggio. Lo appoggio qui, con minime variazioni redazionali (virgole et al.), nella forma di un omaggio a una persona indimenticabile. Il minimo che possa fare. Non detengo i diritti di Disputatio. Spero che, leggendo queste parole ribattute a macchina, venga voglia di recuperare il libricino originale curato da Andrea Genovali.
Parla Stefano.
Disputatio
di Stefano Pieralli
“Il suo curriculum è interessante, al pari di alcuni altri, abbiamo selezionato tre persone tra cui lei e le proponiamo di svolgere una settimana di prova non retribuita in affiancamento. Al termine della prova comunicheremo la nostra scelta”. La responsabile del servizio aveva pronunciato questa frase al termine del primo colloquio di valutazione, con tono rassicurante, ed era netta la percezione che avesse già deciso. Da tre anni, quattro mesi e cinque giorni Federico era rientrato in Italia dopo un periodo trascorso a Londra. Era partito nella speranza di trovare in Gran Bretagna un luogo di civiltà in cui poter trovare sé stesso, era tornato con qualche malattia venerea e senza un soldo in tasca. Negli anni passati a Londra aveva provato sulla sua pelle la madre di ogni discriminazione: la povertà. Aveva quindi deciso di tornare in Italia, dove la famiglia poteva garantirgli quel minimo di rete sociale utile a non sprofondare nel baratro dell’indigenza. Dopo alcuni anni trascorsi a somministrare hamburger e a raccogliere i bicchieri nei pub gay londinesi, Federico aveva rispolverato i suoi titoli di studio e preparato con arte e amore un curriculum formato europeo, inviandolo ovunque e a chiunque operasse nel sociale. Erano circa tre anni che si arrabattava tra contratti a termine, contratti a progetto, affitti di camere in appartamenti di studenti diffusissimi nel mercato immobiliare bolognese, abbandonati per tornare in famiglia ad ogni default finanziario, quando giunse la telefonata del centro di accoglienza per le dipendenze patologiche. Federico non si rammentava di aver inviato loro il curriculum, ma poco importava. “Sono d’accordo e accetto. In questo periodo non sono occupato: sono disponibile a un periodo di prova”. Federico chiuse così il colloquio e uscì dalla stanza incrociando uno dei suoi rivali. Avrà avuto venticinque anni: sicuramente inesperto, sentiva di non doverlo temere.
“Sono lieta di comunicarle che al termine delle prove di tutti i candidati, dopo esserci confrontati con l’operatore che vi ha affiancato, abbiamo deciso di proporre a lei il posto vacante nell’équipe del nostro centro. Il contratto prevede sei mesi di prova al termine dei quali, se tutto andrà bene, avvieremo un rapporto di lavoro a tempo indeterminato. Domani è atteso nella nostra sede centrale per un colloquio con il presidente, e là firmerà il contratto”. Tempo indeterminato, che bella parola, che suono sublime. Erano tre anni che Federico aspettava di sentirla pronunciare. Era quasi commosso. Ora il suo viaggio verso la civiltà, verso un luogo in cui poter essere sé stesso, poteva ricominciare. Sarebbe stato un lungo viaggio, ma questa volta dentro di sé. La mattina seguente si alzò di buon’ora, un po’ ansioso ed eccitato ma sicuro di sé, e si avviò all’incontro con il presidente. A breve, il suo presidente. La sede centrale era un luogo maestoso e ben tenuto, molto diverso dai tuguri a cui Federico si era abituato dalle precedenti esperienze lavorative nel sociale; era chiaro che non si trovasse nella sede di una tipica cooperativa sociale emiliana.
Guardandosi attorno iniziò a scorgere numerosi simboli religiosi, e mano a mano che si avvicinava all’ufficio del presidente i simboli aumentavano in modo esponenziale. Iniziò a inghiottire nervosamente. Dopo pochi minuti di attesa si aprì la porta dell’ufficio e fu invitato ad accomodarsi. Alle pareti numerose figure sacre, nella stanza alcuni mobili antichi di indubbio valore. In fondo alla stanzona, dietro una scrivania anch’essa antica, un signore sulla sessantina vestito in modo sportivo con la barba bianchissima: l’archetipo estetico del missionario progressista. Federico inghiottiva sempre più nervosamente. Era dalla prima comunione che non frequentava ambienti religiosi, ne percepiva l’ostilità, il giudizio morale. “Mi racconti un po’ di lei” gli chiese con tono gentile il presidente. Federico, che non aveva più saliva da inghiottire, si rese conto in un istante che doveva creare, inventare, raccontare un altro sé, altrimenti la suadente parola “tempo indeterminato” non sarebbe mai più stata pronunciata. Federico scelse di riadattare la realtà, cambiò il genere sessuale alle sue relazioni, non si dichiarò pagano ma solo agnostico e disse non aver mai trovato la donna giusta con cui avere figli. Gli sembrò un compromesso accettabile per un lavoro a tempo indeterminato. In fondo, Federico un figlio lo avrebbe voluto davvero, ma in quel contesto dichiararsi a favore dell’adozione per le coppie dello stesso sesso sarebbe stato sconveniente. No, meglio tacere. Il presidente ascoltò in silenzio il racconto di Federico, con attenzione. Al termine del racconto chiese a Federico se desiderasse un caffè. Dopo alcuni minuti di imbarazzante silenzio entrarono due ragazzi in camice bianco, con cappello da cucina, in parte nascosti da straripanti vassoi. Il presidente versò il caffè e porse a Federico alcuni pasticcini e brioche salate. Poi disse: “Lei pare molto tranquillo, questo è considerato generalmente un pregio, ma si ricordi che in questo lavoro la prima cosa è non farsi mettere i piedi in testa. Avrà a che fare con ragazzi di strada. La responsabile del centro l’ha selezionata e io mi fido delle scelte dei miei collaboratori”. Non fu proferita più alcuna parola se non di cortesia. Federico consegnò la documentazione che gli era stata richiesta, firmò il contratto e fuggì da quel luogo.
“L’8 dicembre Maria, il 24 Franco, il 25 Elena, il 26 Carina, il 31 Federico…” durante la settimanale riunione di équipe la responsabile del centro stava elencando i turni di lavoro durante le feste. La comunicazione dei turni di dicembre era un momento molto atteso dall’équipe, non solo per organizzare il proprio tempo libero durante le festività più importanti dell’anno, ma anche per determinare il gradimento che riscuoteva il o la lavoratrice. Più la festività era importante, più il lavoratore o la lavoratrice chiamata a coprire il turno era in “disgrazia”. Era il secondo 31 dicembre consecutivo per Federico, un segnale inequivocabile. Nelle strutture residenziali per persone con dipendenze patologiche, la presenza degli educatori è prevista ventiquattr’ore su ventiquattro e trecentosessantacinque giorni all’anno. Un lavoro pesante, impegnativo, con innumerevoli responsabilità. Un lavoro sottopagato in cui il tempo libero assume un valore enorme ed è una forma di retribuzione aggiuntiva. La definizione dei turni era uno strumento di valorizzazione o di oppressione nei confronti del personale. Uno strumento molto amato dalla dirigenza, attraverso il quale poteva trasformare, in pochi mesi, un contratto a tempo indeterminato in un contratto a termine. Il centro per le dipendenze patologiche non licenziava mai, erano sempre i lavoratori o le lavoratrici a rassegnare, stremate, le proprie dimissioni. Il primo anno, il turno del 31 dicembre era scontato: Federico era l’ultimo arrivato nell’équipe e quell’assegnazione nei turni gli parve lo scotto da pagare per il suo noviziato. Il secondo anno, l’assegnazione del turno il 31 dicembre lasciò Federico basito. I rapporti con il resto dei componenti dell’équipe non erano esaltanti ma in ogni situazione corretti, almeno da parte sua. Con la responsabile i rapporti gli parevano buoni; anzi, a lui la responsabile del centro piaceva molto. Non capiva. Federico uscì dalla riunione dell’équipe perplesso, preoccupato, con la copia dei turni in mano chiedendosi cosa fosse accaduto, cosa stesse accadendo, perché fosse caduto in disgrazia. Le colleghe non lo avevano mai particolarmente amato, non aveva lasciato spazio a relazioni amicali e aveva sempre tenuto tutte a debita distanza. Ma poteva la sua reticenza relazionale essere causa della sua disgrazia? In fondo, da educatrici professionali Federico immaginava letture articolate delle relazioni impersonali: era sempre più perplesso.
“Ne avete ancora per molto?” Federico aveva somministrato l’ultima terapia (quella delle 20:30) e attendeva che gli ospiti di turno finissero di riordinare la cucina prima di consegnare il film per la programmazione serale. Dopo alcuni mesi di discussioni accese era riuscito a convincere i ragazzi ospiti della struttura a visionare film di qualità durante i suoi turni serali, e si preoccupava lui stesso di proporli e recuperarli. Era assolutamente convinto che il depauperamento culturale fosse per molti di loro la causa principale della dipendenza patologica. L’assenza di strumenti culturali impediva a molti di dare letture complesse agli avvenimenti della loro vita, impediva di capire, sentire, digerire le proprie emozioni. Riuscì quindi a sostituire la visione dei soliti film d’azione con quella di importanti e originali film d’autore. Per portare i ragazzi dalla sua parte, alla prima proiezione aveva proposto loro Belli e dannati di Gus van Sant. Un film bellissimo, una libera interpretazione dell’Enrico IV di Shakespeare. Un grande successo non mitigato dalle proposte successive. Se debitamente stimolati, i ragazzi rispondevano alla grande. Quella sera, invece, il film scelto era Frida, un’opera molto recente di Julie Taymor incentrata sulla sofferta vita privata della pittrice messicana Frida Kahlo, interpretata da Salma Hayek. Federico adorava quel film che aveva visto decine di volte, e ogni volta era un viaggio nell’abisso, nel suo abisso. Sarebbe stato bellissimo se i ragazzi si fossero fatti trasportare dalla storia, dalla musica, dai colori di Frida. “Operatore abbiamo finito” un urlo dalla cucina avvisò Federico che il turno del riordino era terminato. Si avviò in cucina col il dvd di Frida in mano, un controllo veloce sulle pulizie svolte poi corse in sala tv. Era ansioso di captare le reazioni dei ragazzi, si aspettava molto da loro, o meglio da alcuni di loro.
Federico si svegliò, bussavano alla porta dell’ufficio dove vi era un divano letto per l’operatore in turno di notte, si vestì velocemente e aprì. Sulla porta Raffaele, un ragazzo napoletano di ventiquattro anni, il più giovane tra gli ospiti del centro. “Che c’è Raffaele, non stai bene?”. Mentre poneva la domanda si rese conto che il ragazzo era praticamente nudo, solo in slip. “Posso entrare” chiese il ragazzo, “non mi sento bene, non riesco a dormire, ho bisogno di parlare”. Il ragazzo si rivolse a Federico con tono gentile, per nulla sofferente. Alle 3 di notte non è semplice essere empatici. “Stai così male da non riuscire a indossare un pigiama?” Federico usò un tono di rimprovero: voleva ripristinare da subito una certa distanza professionale. Quasi istintivamente sentiva il bisogno di schermarsi dietro il proprio ruolo. “Sali in camera e mettiti qualcosa addosso”. Era turbato da quel corpo seminudo. Raffaele era un bellissimo ragazzo: alto, snello, tonico, con lineamenti dolcissimi. “Io intanto preparo un caffè”. Prese le chiavi della cucina e il caffè gelosamente custodito in un mobile dell’ufficio/camera. Nei centri per le dipendenze patologiche, il caffè e le sigarette erano considerati beni voluttuari, somministrati con parsimonia sull’onda di teorie educative alquanto repressive. Raffaele scese dopo pochi minuti. Il caffè era sul fuoco. Indossava una canottiera e una tuta aderente che fasciava cosce e glutei maestosi. Federico versò i caffè, li mise su un vassoio con lo zucchero insieme a qualche biscotto e una bottiglietta d’acqua e andarono in ufficio. Lo fece per sé, sentiva il bisogno di trattarsi bene, di volersi bene. Dopo il caffè non poteva mancare una sigaretta che offrì anche a Raffaele, rompendo così ogni schema prestabilito nei rapporti operatore-ospite. Lo fece senza pensarci troppo, era notte ed era stanco. Si meritava un buon caffè e una sigaretta e probabilmente se la meritava anche Raffaele, se non altro per lo sforzo di essere lì a ventiquattro anni nel tentativo di far riparare la propria vita. Raffaele pareva rilassato e felice dell’accoglienza ricevuta: “Scusi operatore se mi permetto: ma lei è ricchione?” Federico sobbalzò sul divano, il biscotto che stava masticando divenne improvvisamente un mattone piantatosi in gola. “I ragazzi della sede del reinserimento raccontano di vederla spesso in giro per Bologna e che lei è ricchione”. Federico si attaccò alla bottiglietta: pareva volersi annegare. Non gli piaceva negare il suo orientamento sessuale, tutt’al più non affrontava l’argomento, ma dinanzi a una domanda diretta come comportarsi? Dall’età di diciassette anni aveva giurato che non avrebbe mai mancato di rispettare sé stesso negando la sua natura, la sua vita. “Raffaele, mi hai svegliato alle 3 di notte per avere informazioni sulla mia vita privata?” Disse Federico con tono seccato.
“No, ma ho bisogno che mi risponda” disse Raffaele guardando nel vuoto.
F: “Sono solito mantenere un certo distacco tra vita personale e vita lavorativa”.
R: “Io sono solito non avere una vita”.
F: “Pensi che avere dettagli sulla mia vita possa aiutarti in qualche modo?”
R: “Al reinserimento ormai parlano solo di lei, possibile che non lo sappia?”
F: “Non so nulla e non mi interessano i pettegolezzi tra voi”.
R: “Non sono pettegolezzi: dicono di averla vista baciare un ragazzo”.
F: “E anche se fosse? Non capisco il tuo interessamento, o vuoi avere più elementi da riportare ai tuoi compagni? Domani c’è una partita di calcio tra centri: vuoi fare colpo coi tuoi amici?”
R: “È ingiusto: io ho anche litigato per difenderla”.
F: “Ma non c’è nulla da difendere”.
R: “La deridono, la sfottono… non le importa?”
F: “Guarda, Raffaele… mi spiace se hai litigato per me e ti ringrazio, ma non dovevi farlo: tu devi pensare a te, al tuo percorso”.
Raffaele fissava il vuoto, in silenzio, sembrava assente. Passarono alcuni minuti prima che riprendesse a parlare.
R: “Non ne ho mai parlato con nessuno e le chiedo di non parlarne con nessuno. So che voi avete il segreto professionale, siete come i preti non è vero?”
F: “Non proprio come i preti”.
R: “Mi deve assicurare che non dirà nulla a nessuno”.
F: “Nemmeno all’équipe?”
R: “Soprattutto all’équipe”.
Federico, che ormai aveva intuito di che stesse parlando, rassicurò il ragazzo sul suo silenzio.
R: “Prima di entrare qui mi vedevo con un ragazzo di trentacinque anni del mio quartiere, è sposato ma gli piacciono i giochi particolari. Sta nella camorra del quartiere: io ci andavo, almeno credevo, perché mi dava la roba, non mi dovevo sbattere e mi faceva vivere bene. Mi faceva sentire bene. Da quando sono qui penso solo a lui e mi manca. Mi faceva sentire bene, mi manca, con lui stavo bene”. Raffaele parlò per più di due ore, Federico ascoltava, attento, rapito da quella storia ancora più intensa delle pagine scritte da Gide che era solito divorare con ingordigia ogni sera prima di coricarsi. Alle 6 del mattino lo mandò in camera, non voleva che qualche ragazzo si accorgesse che aveva passato la notte nell’ufficio/camera, viste le voci che giravano sul suo conto. Chissà quali dicerie ne sarebbero derivate: meglio essere prudenti. La collega per il passaggio del turno arrivò come previsto alle 9. Federico era provato dalla notte in bianco e decise, come aveva assicurato a Raffaele, di non dire nulla. Salì in macchina velocemente, sentiva la necessità di correre a casa dalle sue tranquillizzanti abitudini, tra le sue cristallizzate sicurezze, e si chiedeva come avrebbe potuto aiutare quel ragazzo. Cosa avrebbe potuto fare, cosa sarebbe stato giusto fare. La riunione di équipe si teneva ogni settimana il mercoledì con ordine del giorno variabile a seconda delle necessità della struttura. Quel mercoledì all’ordine del giorno c’erano i piani terapeutici di alcuni ospiti, tra cui Raffaele. Federico ascoltò attentamente la relazione sul piano terapeutico di Raffaele esposta dall’educatrice titolare del progetto, Maria. In quella relazione non vi era nulla del Raffaele che aveva conosciuto. La collega stava svolgendo il compitino senza passione, credibilità, utilità terapeutica. Non conosceva nulla di Raffaele. Federico non poteva intervenire, aveva promesso di non parlare, ma anche nel caso sarebbe servito a qualcosa? Maria, come le altre colleghe, non avrebbe mai potuto prendere in considerazione che per un ospite del centro il ritorno alla vita potesse voler dire affrontare il tema del suo orientamento sessuale. Erano quasi tutte sposate o fidanzate con cosiddetti ex, e chi ancora non lo era ci stava lavorando. Per le educatrici dei centri per le dipendenze patologiche i ragazzi ospiti sono spesso una sfida da vincere, e il trofeo è l’altare. L’erotismo femminile nel sociale di matrice cattolica è un universo che spaventa. Federico sapeva che attraverso l’équipe non poteva incidere sul percorso terapeutico di Raffaele, ma non intendeva lasciarlo solo e così aprì con lui, senza verbalizzarlo, un proprio percorso terapeutico, perché gli aveva chiesto aiuto. Decise che sarebbe diventato il suo educatore ombra: a ogni turno festivo o serale, quando era l’unico educatore in turno, si ritagliava uno spazio da dedicare a Raffaele. Lunghi colloqui in cui sostenerlo, motivarlo a conoscersi, ad apprezzarsi, a sentire i propri sentimenti e a non reprimere le proprie pulsioni, ma riconoscerle per viverle dignitosamente. Per molti mesi andò alla struttura con grande motivazione: sentiva di compiere un importantissimo lavoro. Raffaele era un ragazzo in gamba e forse grazie anche al suo aiuto avrebbe potuto vivere la sua vita serenamente, liberamente. I lunghi colloqui tra Federico e Raffaele infastidivano e ingelosivano gli altri ragazzi e in breve tempo, all’insaputa degli interessati, fiorirono nel centro le più fantasiose ipotesi sul loro presunto rapporto. “L’educatore e il giovane ospite” avrebbe potuto essere il titolo del libro contenente i racconti che circolavano sul loro conto. Nel frattempo Raffaele stava sempre meglio, il suo percorso progrediva assieme alla sua consapevolezza, lucidità e volontà di cambiare vita, e doveva molto a Federico. Lo sapeva e gli era grato. Glielo disse quando si salutarono il giorno in cui si trasferì all’agognata sede del reinserimento, la fase conclusiva del programma terapeutico. Un lungo abbraccio, virile stretta di mano, ma nessun bacio. Dio, incarnatosi nell’équipe, li osservava.
Giunto a casa, Federico lesse e rilesse il foglio turni di dicembre. Il secondo Capodanno in turno era un’ingiustizia, decise quindi di chiedere un incontro con la responsabile e le telefonò per un appuntamento. La settimana successiva, al termine della riunione di équipe, l’incontro ebbe luogo. La responsabile era visibilmente infastidita da quella situazione che non aveva potuto evitare, e dinanzi alle rimostranze di Federico non provò neppure ad abbozzare giustificazioni. Andò al nocciolo della questione. “Era mia intenzione parlarti passate le feste, ma vista la tua insistenza sono costretta a darti oggi il quadro della situazione. Io, l’équipe tutta e i dirigenti del centro siamo sconcertati dal tuo lavoro, non riteniamo tu sia in grado di svolgere il ruolo di educatore, ma considerato che hai un contratto a tempo indeterminato e che, in ogni caso, abbiamo bisogno di qualcuno che svolga un ruolo operativo ti informo che, dall’anno nuovo, non avrai più alcun ragazzo riferito di cui curare il progetto terapeutico. Ti occuperai esclusivamente dei trasporti e della manutenzione della struttura”. Federico restò senza parole davanti a tanta durezza. Era un fulmine a ciel sereno, non aveva mai avuto alcun sentore di una situazione così compromessa. A lui sembrava di lavorare bene, con Raffaele poi era sicuro di aver svolto un ottimo lavoro, certo nessuno lo sapeva, ma era la prova provata che lui era in grado di svolgere il ruolo di educatore. D’istinto reagì in termini sindacali.
F: “Quindi mi abbassate il livello? Non credo possiate farlo”.
R: “Nessun abbassamento di livello, noi ci muoviamo nel rispetto della legge”.
Federico voleva capire. Quasi pentito della sua prima domanda, aggiustò il tiro.
F: “Credo di avere il diritto di sapere perché, dopo quasi due anni di lavoro, non sarei più adatto a svolgere il ruolo dell’educatore”.
La responsabile era sempre più insofferente, visibilmente scocciata.
R: “Senti Federico, tu sai benissimo il perché, pensavi che il tuo rapporto privilegiato con Raffaele sarebbe passato inosservato? Hai danneggiato, spero non irreparabilmente, il percorso di un ragazzo”.
Federico iniziò a innervosirsi. “Rovinato il percorso di un ragazzo? Ma Raffaele è al reinserimento e so che ha trovato lavoro. Non è mai ricaduto nell’abuso di sostanze, e sta bene”.
R: “Hai messo strane idee nella testa di quel ragazzo, sino a costringerci a farlo seguire da uno psicoterapeuta”.
F: “Sai meglio di me che Raffaele sta benissimo e mi auguro non gli abbiate assegnato un riparazionista teorico dell’omosessualità quale malattia! Me lo auguro per il bene del ragazzo!”
R: “Non sei più un ragazzino, pensavo che alla tua età sapessi come funziona il mondo. Ma dove credi di essere venuto a lavorare, qui per le tue teorie non c’è spazio e se i servizi di Raffaele lo hanno mandato da noi è perché hanno fiducia nelle nostre, di teorie”.
F: “E che Raffaele ora sta bene non importa a nessuno?”
Alla domanda di Federico non vi fu risposta, e l’incontro s’interruppe in un’atmosfera di ostilità reciproca. Dopo alcuni mesi di turni massacranti, nessun riconoscimento per qualsiasi compito svolto, Federico non cedeva. Nessun altro educatore caduto in disgrazia prima di lui aveva resistito sino a quel punto. La responsabile alzò il tiro, lo escluse dalle riunioni di équipe e lo delegittimò agli occhi degli ospiti, i quali, oramai, si sentivano autorizzati a ogni atteggiamento provocatorio nei suoi confronti. Fiaccato, ferito e isolato, a Federico rimanevano due opzioni: andarsene o rivolgersi ai sindacati. Decise di chiamare l’ufficio della Cgil. Gli diedero un appuntamento al quale si presentò puntuale e agguerrito. Iniziò a raccontare gli avvenimenti: man mano che il racconto procedeva il viso del sindacalista, molto espressivo, s’incupì, e alla fine non fece domande. Uscì dall’ufficio e tornò dopo una decina di minuti sconsigliando di fare causa per mobbing. A parere del sindacalista la relazione intercorsa tra Federico e il ragazzo ospite era troppo ambigua e non sarebbe stato utile fare entrare in una causa di lavoro la figura di un utente del servizio. Era evidente che il sindacalista non fosse a proprio agio col termine omosessualità. Il ruolo non gli permetteva di esternare il suo pensiero ma, probabilmente, quello era uno dei rari casi in cui si era trovato più in sintonia col datore di lavoro che col lavoratore.
Privo anche di un sostegno sindacale, rimuginando sull’ignoranza quale elemento trasversale alle classi sociali, Federico si recò a casa e, sconfitto, scrisse la lettera di dimissioni. Non avrebbe mai voluto darla vinta alla sua responsabile, ma doveva arrendersi all’evidenza. Il giorno successivo inviò alla sede centrale la lettera di dimissioni per raccomandata con ricevuta di ritorno e telefonò alla responsabile del centro, che le accolse con malcelato buonumore. Il contratto prevedeva sessanta giorni lavorativi di preavviso: con una certa crudeltà, tolti i giorni di ferie maturati, la responsabile li pretese tutti. Furono quaranta giorni molto tristi e malinconici per Federico che ogni tanto pensava a Raffaele e sperava di cuore che, almeno a lui, le cose stessero andando bene. Non aveva più chiesto notizie, era terrorizzato dal rischio di metterlo in difficoltà e sperava che tutta la cattiveria e l’ignoranza del centro lo risparmiassero e non infierissero su una vita che bisognava aiutare a rinascere. Doveva stargli lontano. Aveva sempre letto molto ma, in quei lunghissimi quaranta giorni, non si staccò mai dai suoi testi preferiti. Leggeva e rileggeva spesso le stesse pagine, le stesse prose, le stesse poesie. Una poesia su tutte lo ristorava, lo aiutava a riflettere, a trovare le energie per ripartire: Mura di Kavafis.
Senza riguardo senza pudore né pietà, / m’hanno fabbricato intorno erte, solide mura. / E ora mi dispero, inerte, qua. / Altro non penso: tutto mi rode questa dura sorte. / Avevo da fare tante cose là fuori. / Ma quando fabbricavano fui così assente! / Non ho sentito mai né voci né rumori. / M’hanno escluso dal mondo inavvertitamente.*
Federico leggeva e rileggeva quella poesia scritta nel lontanissimo 1887. La sentiva sua, lui era quella poesia. Il 6 giugno Federico concluse il periodo di preavviso, raccolse dall’ufficio le sue cose, scambiò qualche chiacchiera con i ragazzi avvicinatisi per salutarlo e si avviò all’automobile. Incrociò un ragazzo sulle scale, probabilmente il suo sostituto. Si guardò attorno. In quel luogo aveva passato gran parte degli ultimi due anni ed era consapevole che ci sarebbe voluto tempo per elaborare quella breve ma intensa fase della sua vita. Salì in auto, imboccò il viale dell’uscita e iniziò a pensare su come trascorrere quell’estate improvvisamente libera da impegni. Gli avevano parlato di Berlino quale nuova capitale d’Europa. Il viaggio alla ricerca di un luogo di civiltà in cui poter essere sé stesso alla soglia dei quarant’anni doveva riprendere.
Sarà perché sto per tornare all’università nei panni dello studente lavoratore e tardone, sarà perché anni or sono le ho voluto tanto bene. Per farla breve, ho ripescato la mia vecchia tesi di laurea e le ho fatto il tagliando. S’intitola Linee di massima pendenza e parla di cinema e filosofia. Spunto, l’immagine-pulsione accennata da Gilles Deleuze nel primo dei suoi trattati scopofili degli anni Ottanta. Obiettivo d’antan: discutere la tesi – correva l’anno 2001 – infliggendo una celluloid atrocity in forma di videocassetta alla commissione accademica.
Ricordo ancora il momento in cui, a casa di mia nonna paterna, lessi il capitoletto striminzito di Cinema 1 – L’immagine movimento che tratta l’immagine-pulsione. Doveva essere il 1998, a suo tempo ero un collezionista ossessivo e corsaro di film in formato analogico, e le poche righe che Deleuze dedica a questo tassello difettoso della sua tassonomia mi lasciarono a bocca aperta. Seppi subito di aver trovato l’incrinatura attraverso la quale passa la luce. Mi attrezzai per un lavorone e ne uscirono quattrocentocinquantamila battute tra il visionario e la schiuma alla bocca. Abituato com’ero a scrivere a mano (a caratteri maiuscoli, come se non peggio di un serial killer), l’esperienza di usare Word sul pc attrezzato con Windows Millennium Edition è stata formativa nel senso agghiacciante del termine. Le tesine le avevo scritte tutte su un computer accessibile via Norton Commander. Refusi e sbavature a balùs.
Questo spiega il tagliando a vent’anni tondi di distanza. Riaprendo il file, l’orrore ha spalancato le sue fauci lovecraftiane fin dal frontespizio, al che mi son detto diamogli una scorsa. Ora il testo è più leggibile, ha delle pagine in meno – roba compilativa inutile – e sebbene le norme adottate siano quelle che sono, stanno in piedi. Il rizoma è salvo, anche se sbuffa e sferraglia come un marchingegno steampunk. Qua e là ho anche aggiustato l’argomentazione e inserito dei passi che portano l’immagine-pulsione negli anni Venti di questa nostra millennium edition. Il file sta qui:
A mo’ di abstract, c’era una volta Gilles Deleuze senza Félix Guattari. Deleuze era un cinefilo compulsivo, e tra il 1983 e il 1985 pubblicò l’opera in due volumi L’immagine-movimento e L’immagine-tempo. Traduzione italiana rispettivamente di Jean-Paul Manganaro e Liliana Rampello, edita da Ubulibri (ora Einaudi dopo auspicabile revisione). Non una storia del cinema, bensì una tassonomia, o meglio una cassetta degli attrezzi – metafora che aiuta a capire l’intero costrutto del pensiero deleuziano. Prima di approdare a una dimensione più cerebrale e postmoderna (quella di cui si occupa Cinema 2), in Cinema 1 il filosofo individua delle “immagini” che vanno pian piano a comporre la sintassi filmica classica. Parte dal primo piano (immagine-affezione, possibilità pura) ma s’inceppa subito in quello che rappresenta lo snodo negativo, devastante e malfunzionante che ostacola il raggiungimento dei solidi stilemi del cinema hollywoodiano (l’immagine-azione). Questo passo falso, che disfa invece di imbastire, che fa terra bruciata e non ci fa uscire dalla sala con un senso di appagamento e conferma, questo Odradek riottoso del grande schermo è l’immagine-pulsione.
Come riconocerla? Da pezzi, abbozzi, sintomi e feticci, dai Triebe freudiani che ci squassano impedendoci di pensare razionalmente. Vettori che puntano al sesso – quasi mai riproduttivo -, alla morte (propria e altrui), al denaro. Storie viscerali che finiscono male. Congegni narrativi carichi come molle, che ti esplodono in mano. Dischi rotti. Ambienti esauriti, corpi sfiniti. È il naturalismo, versione grezza del realismo e al contempo più vera del vero. Perché neanche la realtà ha la battuta pronta e un lieto fine dietro l’angolo.
Deleuze individua due maestri della pulsione al cinema: Erich von Stroheim e il Luis Buñuel allo stato brado, tra Las Hurdes (1932) e la rinascita con Viridiana (1961). In mezzo ci sono i famigerati “film messicani”, allora in parte reperibili solo grazie a Fuori orario. Stroheim rappresenta la forma più pura di immagine-pulsione, autodistruzione compresa. Greed (1924), tratto dal romanzo McTeague dello “Zola americano” Frank Norris, segna il punto di non ritorno per un cinema non solo inguardabile da parte del pubblico di massa, ma soprattutto improducibile a livello finanziario. Non a caso, il film circolò in una versione vergognosamente monca per interi decenni, e col sonoro Stroheim dovette appendere la cinepresa al chiodo. Solo Billy Wilder in Sunst Blvd. avrà il genio e la riconoscenza di farlo riapparire sullo schermo, lui e un altro martire delle metamorfosi produttive di nome Buster Keaton. Nella tesi parlo ampiamente sia di tutti i film diretti da Stroheim, sia del Buñuel costretto alla sua traversata nel deserto. Pur di lavorare, il regista spagnolo accettò infatti per un quarto di secolo progetti spesso alimentari, nei quali riuscì tuttavia a infilare dei semini. Autentica sabbia negli stessi ingranaggi che andava ordendo. Con Buñuel l’immagine-pulsione diventa inserto disturbante, sabotaggio. A una messinscena tutto sommato piana si aggiungono elementi come un cazzotto (o un rasoio) nell’occhio. Los olvidados (1950) ingannò tutti con l’etichetta neorealista quando invece il neo era nero, le scene oniriche invadevano la realtà sotto forma di polli minacciosi e il grottesco, la cattiveria, da marchi d’infamia diventavano semplicemente la misura del mondo. Per sicurezza, Buñuel aveva pure girato un happy end. Altrimenti rischiava di finire lui nella Tierra sin pan.
Il terzo esempio deleuziano di immagine-pulsione, meno presente in Cinema 1, è dato da Marco Ferreri, il fisiologo per eccellenza del cinema italiano. Nella tesi ne parlo con particolare attenzione al corto Il professore, alla Donna scimmia e allo straordinario Break up, versione lunga dell’Uomo dei cinque palloni. In Ferreri l’immaginario pulsionale diventa più pop e stravagante rispetto alle classiche ossessioni stroheimiane o buñueliane per i piedi o gli animali selvatici. Break up racconta la storia di un industriale del cioccolato (Marcello Mastroianni) che s’incaponisce per capire fino a che punto si possa gonfiare un palloncino. A casa ne ha cinque, e quando anche il quinto esplode frustrando il suo intento scientifico – che nel frattempo gli ha desertificato la vita – non gli resta che buttarsi dalla finestra, spiaccicandosi su una macchina nella Milano prenatalizia. Analoghi percorsi verso il fondo, in un assurdo che fa male, si assistono nei ben noti Dillinger è morto e La grande abbuffata. Ferreri è stata una figura mastodontica del nostro cinema, spesso presa sottogamba per via della presunta sciatteria o della bassezza incomprensibile dei suoi temi.
Con Ferreri termina la parte di ricerca classica della tesi e inizia quella sperimentale con la sigaretta nelle narici. Puntando tutto sul verde della roulette, azzardo nomi nuovi nel prosieguo dell’immagine-pulsione secondo la buona vecchia politica degli autori baziniana. Questi nomi sono David Lynch (in primis l’incipit di Blue Velvet, ma anche la striscia di Moebius decerebrata di Lost Highway), Peter Greenaway (che fonde barocco digitale, ossessioni idiosincratiche e carnezzeria) e Jan Švankmajer, surrealista come Buñuel, maestro nel far rivoltare gli oggetti e nel ridurre gli esseri umani a insetti sragionanti. In coda, un cenno a Tsai Ming-liang e a qualche nome – anche nuovissimo – che fa collidere la pulsione col cervello, la fame da zombi con l’emicrania, il genre col gender.
Mentre ero sotto tesi ho avuto il privilegio di intervistare di persona, a Ostia, l’unico accademico italiano che all’epoca aveva sposato con slancio la tassonomia deleuziana: Roberto De Gaetano. La lunga chiacchierata con lui ha segnato il momento più alto di un periodo altrimenti caotico, con un drone in testa e troppi eventi in contemporanea per lanciarsi nell’ascensore senza fili della concentrazione vera. Tant’è che nella versione finale della tesi uno dei nomi ricorrenti compariva col nome di battesimo sbagliato (Roberto Grande invece di Maurizio), Buñuel aveva un segno diacritico ceco sulla n invece della bisciolina giusta e i refusi, anche nei paragrafi chiave, spuntavano come ovolacci. Tutto questo, dopo il tagliando, non c’è più. È rimasto qualcos’altro. Il giorno della discussione proiettai una vhs assemblata poche ore prima con due videoregistratori. Si vedeva questo:
Pure la data di realizzazione di Queen Kelly avevo sbagliato, 1919 invece di 1928-9. Non so cosa dissi, alla fine strinsi la mano solo al relatore capo – che non avevo chiamato chiarissimo sui volumi sfornati in copisteria – tornai a casa in vespa e vidi una mail di De Gaetano che lamentava la cattiva citazione dell’amico Grande. Già lavoravo a tempo pieno da un anno e mezzo: decisi che l’accademia non faceva per me. E rieccoci, come un disco rotto al ralenti, rieccoci qui vent’anni dopo con le stesse immagini in testa, e quache drone in meno.
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