irrealismo socialista

Popiół i diament (1958) di Andrzej Wajda

In tutto questo, Elia, il trasloco, le fatiche a dozzine del traduttore umano in un mercato sempre più disumano, ho finito l’università. O meglio: ho finito i corsi del mio Bachelor alla Humboldt. In aprile ho terminato la parte di Biblioteconomia, questo mese quella di polonistica, con un ultimo esame di letteratura in cui ho scelto una domanda su Jerzy Andrzejewski. Restano una Hausarbeit (su Stasiuk) e la tesi entro febbraio, in via di definizione. Il sollievo per la fine della frequenza, oggettivamente non più sostenibile – ed è un miracolo che sia arrivato fin qui – è comunque frammisto a una grande tristezza. Malgrado lo stress ho goduto ogni momento del mio ritorno all’università dopo vent’anni e passa, apprezzando gli stimoli e la trasmissione strutturata del sapere molto più che a suo tempo. I solipsismi e le distrazioni dei tardi anni Novanta hanno ceduto il passo a una concentrazione laser e soprattutto a un senso di urgenza, e riconoscenza, improbabili quando si è reduci da pessimi anni di liceo.

Studiando la letteratura polacca del Novecento sono rimasto molto colpito dalla figura di Andrzejewski, un mutante con almeno un classico al proprio arco – Cenere e diamanti – celebre soprattutto grazie alla trasposizione filmica di Wajda. Un paio di anni fa ho fatto qualche ricerca superficiale sul romanzo, constatando una genesi travagliata e una lunghissima assenza dagli scaffali delle librerie. L’unica traduzione italiana continua a essere quella di Vera Petrelli del 1961 per l’editore Lerici. In queste settimane sono riuscito ad andare alla radice, e allora ecco la storia di un romanzo radicalmente importante per la letteratura polacca, e del suo autore radicale ma non troppo.

Andrzejewski era cattolico. Si era fatto un nome col romanzo Ład serca (“l’ordine del cuore”, 1938), dalle dirette influenze bernanosiane, e col racconto Wielki Tydzień (“settimana santa”, 1943), incentrato sulla Shoah, parzialmente riscritto nel 1945. Classico nello stile, molto attento alle sfumature etiche e a far emergere domande esistenziali. Nel dicembre del 1946 scrisse la prima versione di quello che sarebbe diventato Popiół i diament. Un romanzo ancora incompleto, pubblicato sulla rivista Odrodzenie nella primavera del 1947. Siamo a Ostrowiec, Małopolska, tra il 5 e l’8 maggio 1945. Due le direttrici della trama. Da un lato c’è il ritorno a casa del giudice Antoni Kossecki, che nel campo di concentramento di Groß-Rosen ha funto da kapò. Una notizia destinata a filtrare gradualmente e a sconvolgere la sua cerchia. Dall’altro c’è l’ultimo compito affidato al giovane attivista Maciej Chełmicki dell’Armia krajowa. Maciej, stanco di combattere, deve uccidere il funzionario comunista Stefan Szczuka. Prima ammazza per errore due innocenti insieme ai compari, poi riesce nel compito, salvo finire crivellato nel finale poiché dei soldati lo vedono correre armato. Il romanzo di Andrzejewski tocca quindi due corde delicatissime dell’allora passato recente: le strategie di sopravvivenza sotto l’occupazione nazista e l’azione partigiana, avversa sia alla Germania hitleriana, sia al potere sovietico che poté consolidarsi a partire dal 1945. Il narratore della versione in rivista lascia parlare liberamente i personaggi e, sebbene onnisciente, mantiene un profilo basso. Il testo si interrompe nel bel mezzo di quello che sarà il settimo capitolo, con un dialogo notturno tra Kossecki e la moglie Alicja, ignara del suo ruolo a Groß-Rosen.

Nel 1948, per i tipi di Czytelnik, Cenere e diamanti vide la luce in una forma completa. Dieci capitoli dalla lunghezza molto varia e lievi accorgimenti rispetto a Zaraz po wojnie, subito dopo la guerra, perché così era uscito pochi mesi prima a puntate. Il nuovo titolo fa perno su una citazione da Cyprian Norwid in cui s’imbatte Maciej, cruciale per comprendere lo spirito del testo. La fonte precisa è Tyrtej, seconda parte del dramma Za kulisami (1865-1867). Possibile, si chiede Norwid, che in mezzo alla cenere della distruzione si possa scovare un diamante? Nonostante il potere sovietico in crescita, che in Polonia aveva come tentacolo il partito dei lavoratori (PPR, poi PZPR), Andrzejewski mantiene una certa equidistanza rispetto ai temi trattati, anche quando lancia in pista i membri del nuovo partito egemone. Szczuka, ad esempio, è in teoria un personaggio positivo, eppure viene subito messo in contrasto con l’antieroe Maciej in tema di sigarette. I due s’incrociano per la prima volta nell’atrio dell’Hotel Monopol, riuscitissima metonimia del carrozzone polacco novecentesco. Szczuka chiede al portinaio delle sigarette americane, mentre Maciej preferisce quelle ungheresi, “più forti”. Inutile dire che il dettaglio stampiglia simpatia sulla fronte del giovane attentatore.

L’accoglienza della critica fu piuttosto fredda, con una staffilata micidiale da parte dell’intellettuale integrato Jan Kott, che su Kuźnica accusò l’autore di “mały realizm” (piccolo realismo), vale a dire scarso coraggio nella rappresentazione dei quadri del partito. Il fatto che Andrzejewski non avesse militato in area socialista durante gli anni della guerra era ben noto, anche se col cambio di regime lo scrittore aveva iniziato una manovra di avvicinamento al governo Bierut. Una scelta opportunistica, forse obbligata per restare a galla, che tuttavia non traspare dalle pagine di Popiół i diament, quasi un resoconto in presa diretta del caos a Est sullo sfondo della capitolazione tedesca. L’autore non reagì alla critica, peraltro non isolata, e si limitò a partecipare pochi mesi più tardi al congresso di Stettino che introdusse anche in Polonia, ormai PRL (Repubblica popolare polacca) i postulati tagliati con l’accetta del realismo socialista di stampo sovietico, fissati dal congresso moscovita del 1934.

Nel 1950, Andrzejewski tornò su Odrodzenie con un testo dall’impronta diaristica intitolato Notatki, col quale fece micidiale autocritica. In pratica, diede ragione a Kott ammettendo di non aver sfruttato il romanzo per bilanciare il proprio attivismo a scoppio ritardato. Ho scritto troppa cenere con la sinistra e troppi pochi diamanti con la destra, annotò Andrzejewski prima di giungere alla conclusione che avrebbe dovuto scrivere un romanzo diversissimo. Popiół i diament continuò ad avere comunque un certo successo in libreria, e quando si trattò di andare in ristampa nel 1954 l’autore decise di rimetterci mano. Il risultato è una bizzarra iniezione di conformismo in un romanzo che fino a quel momento aveva mantenuto intatta una grande dignità di testimonianza storica e sociale.

Intervenendo su un ventesimo circa della foliazione, ma con decisioni strutturali presenti quasi a ogni pagina, Andrzejewski sincronizzò Cenere e diamanti col clima politico vigente. Ecco allora l’onnipresente appellativo “compagno”, russo diventa spesso sovietico, il gergo partitoidale si fa largo nelle descrizioni, il narratore tira qualche leva per influenzare la nostra opinione dei personaggi e, soprattutto, i dialoghi tra membri del partito vengono radicalmente riscritti, con aggiunte didascaliche o bizzarre sparizioni. Quella che era una generica parata diventa giocoforza un paratone del primo maggio. Socialismo reale ante Polskam, cioè ante PRL. Nella prefazione del marzo dello stesso anno, l’autore in pratica ritratta le Notatki dicendo, coda tra le gambe, di aver optato per qualche ritocco stilistico e “significativo” per meglio servire la platea dei lettori. La cosa buffa, o tragica, è che nel 1954 l’epoca del realismo socialista in Polonia era ormai al tramonto. Stalin era già stato divorato dai vermi e nessuno aveva più voglia di attenersi supinamente al corsetto ideologico, e noiosissimo, di un realismo irreale, manicheo, letterariamente una zappa sui piedi. Persino Kott, forse apprezzando lo svoltone codardo di Andrzejewski, finì per riabilitare il romanzo, che già nel 1948, parole sue, aveva brillato per freschezza e spontaneità.

La storia per fortuna non finisce qui, perché nel 1958 esce il film, dopo quasi settant’anni forse il minimo comun denominatore quanto a capolavori made in Poland, una delle poche pellicole davvero indispensabili per scrutare gli abissi, celestiali, dell’anima polacca. Andrzejewski scrive la sceneggiatura insieme a Wajda. Nel 1957, con un’altra delle sue svirgolate, l’autore stanco degli interventi censori aveva restituito la tessera di partito, iniziando lentamente a venire allo scoperto come critico del regime (non più di Bierut ma di Gomułka, storico avversario di Bierut). Regista e co-sceneggiatore decidono di comprimere l’azione e di sforbiciare la trama legata a Kossecki, per cui nel film il tema dei campi di concentramento non c’è. Maciej, interpretato dal James Dean polacco Zbigniew Cybulski e dai suoi eterni occhiali da sole (“perché durante la rivolta ho passato troppo tempo nei canali”), diventa il protagonista assoluto. Lui, un assassino, con le sue sigarette ungheresi, il flirt con la barista Krystyna e i tic attoriali indimenticabili, come la scena finale della morte, che sembra quasi una burla. Potenziato dalla concretezza mozzafiato tipica di Wajda, da fotogrammi spiazzanti e da un ritmo impressionante, che dipende dall’incastro dei piani e non certo dalla rapidità del montaggio, il film può essere visto ancora oggi una volta al mese senza stancarsi mai, e trovandoci sempre qualcosa di nuovo. Oltre ai suoi meriti cinematografici, il Popiół i diament del 1958 vale come una quarta, matura versione del romanzo, col braccio moralista tagliato di netto. La sequenza del banchetto dei comunisti all’Hotel Monopol, con i suoi toni grotteschi malgrado i dialoghi restino nei ranghi, è un magnifico esempio di critica col fioretto.

Andrzejewski non è mai più tornato sul romanzo. Nel 1977, lo slavista Witold Kośny ha pubblicato uno studio comparativo impeccabile sulle tre versioni. Nel 1997, Suhrkamp ha riproposto il testo del 1948 in un’edizione critica curata da Andreas Lawaty, con le parti successivamente ritoccate in corsivo e, in coda, un elenco dettagliato degli interventi e una ricostruzione della storia editoriale. Henryk Bereska, che nel 1961 aveva tradotto Popiół i diament in tedesco per l’editore orientale Volk und Welt, ebbe l’occasione di completare l’opera integrando le parti mancanti degli anni 1947-1948. Sempre nel 1961, e sempre sull’onda del successo internazionale del film di Wajda, Cenere e diamanti è arrivato in Italia nella traduzione di Vera Petrelli. Da un rapido riscontro (il paratone del primo maggio) si evince che il testo di partenza, com’è stata la regola per decenni, era quello del 1954. Possiamo quindi serenamente concludere che l’Italia deve ancora vedere la versione autentica di Popiół i diament. Cholera!

siamo tutti Miauczyński

Wojciech Wysocki (Adam Miauczyński) in Życie wewnętrzne (1986) di Marek Koterski

Nanni Moretti in Polonia… si può? Si può. Con un correttivo malandrino in stile Tsai Ming-liang. Marek Koterski è la scoperta degli ultimi mesi, una di quelle che ti lasciano a bocca spalancata anche dopo decenni di videocassette pirata, cinéma d’auteur à la Bazin, dvd grabbati, rippati e bruciati, nuvole e tubi. Come ho fatto a campare senza di lui e soprattutto senza il suo alter ego Adaś Miauczyński, sghembo protagonista di nove film in quarant’anni? Contiamo fino a sette e partiamo, perché sette è il numero magico – cioè anale – dell’Adam più famoso della cultura polacca (dopo Mickiewicz).

Conviene cominciare in medias res, cioè dal centro esatto di questa filmografia spalmata tra il 1984 e il 2018. Dzień świra (2002, sottotitoli inglesi sul portale 35mm), titolo internazionale Day of the Wacko, è considerato da molti, in patria, la commedia moderna più bella e graffiante del cinema polacco. Persino più di Rejs. Saltando a piè pari il tema delle top ten e dei paragoni tra mele e pere, i motivi di tanta popolarità ci sono tutti. Film compatto e dritto come un fuso, Dzień świra si dipana per un giorno esatto nella – fantozziana – vita del suo antieroe, polonista frustrato, marito lasciato, padre di un adolescente selvatico (Michał Koterski, figlio del regista) e maniaco ossessivo compulsivo a livelli da Michele Apicella. In concreto non succede un granché, ma sul piano filmico queste 24 ore al seguito di Marek Kondrat – che interpreta Adam – sono un maelstrom di tic, sfuriate, fantasie romantiche (nel senso letterario del termine), pensierini erotici e bordate contro tutto e tutti. A cominciare dai vicini, che al calar della sera intonano un’antipreghiera augurandosi l’un l’altro ogni male. Non un vicinato qualunque: chi ha visto il Decalogo di Kieślowski riconoscerà i classici appartamentini, l’accrocco di palazzine, gli ascensori e le trombe delle scale da asma e i sentieri nel poco verde inframmezzato al grigio dei prefabbricati, insomma il tipico microcosmo da grande città dell’Est europeo. Il film si conclude con una citazione da Saint-Exupéry (Terre des hommes) che spezza il cuore e stimola empatia pure nei confronti del burbero protagonista. Bonus impossibile da dimenticare: la sua fissa per il numero 7.

Dzień świra è questo e molto altro. Koterski vi intesse una trama fittissima di riferimenti tra il sublime e l’infimo, flirtando con l’attrazione di Gombrowicz per l’infantile più grezzo ma senza mai perdere di vista una solidità nella scrittura che ricorda il teatro. E infatti questo film, come quasi tutti quelli di Koterski, nasce come monologo teatrale, sfogo di un’unica voce. Col passaggio alla messinscena cinematografica si potenzia l’elemento maniacale, con una batteria di immagini e situazioni ricorrenti, o idee felliniane come la parodia volgare delle pubblicità (una trovata presa paro paro da Ginger e Fred). Il titolo polacco del film di Harold Ramis Il giorno della marmotta (cioè Ricomincio da capo) è letteralmente Dzień świstaka, e al momento di scrivere il suo film più rispettoso dei dettami aristotelici è molto probabile che Koterski abbia lasciato volontariamente anche questa eco.

Adam, per gli amici (e la mamma) Adaś Miauczyński non nasce nel 2002, ma nel 1984. Dom wariatów (‘la casa dei pazzi’, quindi ‘la gabbia di matti’), ideato ai tempi della legge marziale, è il debutto cinematografico di Marek Koterski. A sua volta polonista con una passione per il romanticismo, almeno inizialmente più vicino al teatro che al cinema, Koterski incardina il proprio metodo di lavoro fin da questo – allora inconsapevole – primo capitolo dell’epopea miauczyńskiana. Nella sceneggiatura, Adam ricorre come JA (‘io’) e il cognome, che miagolando giochicchia con quello dell’autore (kot = gatto), stavolta non appare. Film livido chiuso tra le poche pareti della casa dei genitori in una sera d’inverno, Dom wariatów con le sue atmosfere asfissianti è a malapena una commedia, e se proprio è una commedia nerissima, con un tipo di umorismo non per tutti i palati. A essere immediatamente riconoscibile, almeno per il pubblico polacco di allora, è il clima da lockdown – causa carrarmati per strada – e la frustrazione imperante di un popolo costretto a sfogarsi con l’alcol e le sigarette. In termini di plot non succede quasi nulla: in compenso, sbocciano le piccole manie, i soprammobili posizionati diversamente da questo o dall’altro membro del nucleo familiare, che fioriranno rigogliose in Dzień świra. I vicini del piano di sopra sono l’orrore in carne e ossa – basta una chiazza d’olio sulla giacca mentre l’uomo ingolla un’acciuga, per qualificarlo antropologicamente – la madre (Bohdana Majda) è un gigante dalla cui ombra il protagonista non può scappare, e il padre, mezzuccio di sceneggiatura che non vale come spoiler, si vede ma non c’è, perché è morto da un pezzo. A tratti, Dom wariatów sembra l’Eraserhead della repubblica popolare polacca.

Życie wewnętrzne (‘vita interiore’, 1986) è quanto di più vicino a Dzień świra ci sia nei primi anni di attività di Koterski. Innanzitutto, l’atmosfera condominiale è pressoché identica, col ruolo centrale dell’ascensore come cella in cui incontrare il peggio dell’umanità. Un altro elemento clou che qui irrompe alla grandissima è l’erotismo, sfacciato e frustrato, con un livello di “graficità” che può spiazzare. In realtà, guardando ad altre commedie polacche molto popolari dell’epoca come Seksmisja (1983) di Machulski, l’addentellato con quella che in Italia chiameremmo commedia scollacciata non era una novità, né indispettiva tanto la censura. La sorpresa, rispetto a una lettura monolitica dell’opera koterskiana, è data dal protagonista: si comporta come Adaś Miauczyński, parla come Adaś Miauczyński, lo trattano da Adaś Miauczyński… ma si chiama Michał (Miauczyński, cognome pronunciato qui per la prima volta), e a interpretarlo non è il pensoso Marek Kondrat bensì il saturnino Wojciech Wysocki. Con Życie wewnętrzne inizia la composizione di un autentico autoritratto cubista. Miauczyński, maschio bianco etero di età variabile – ma spesso quarantenne – cambia faccia, a volte cambia anche nome, ma resta una maschera potentissima non solo del proprio autore, ma della polonesità in generale. Cosa succede in questo film? Al solito, non granché, ma sicuramente di più rispetto a Dom wariatów: il protagonista ha a che fare col cane aggressivo del vicino, viene scambiato per un vampiro, cena ogni sera con la moglie mangiando un piatto freddo e guardando in tv un documentario sulla Shoah, sogna episodi erotici con la vicina. La sequenza della passeggiata notturna con interrogatorio della polizia, per quanto comica nella struttura, fa venire i brividi. Fun fact: a teatro in quel di Varsavia nel 1987, Życie wewnętrzne fu interpretato da Krzysztof Kowalewski, attore brillante molto vicino a Tym e Bareja.

Porno (1989) segna una prima battuta d’arresto. Michał – di nuovo – Miauczyński è qui interpretato dal giovane Zbigniew Rola, e l’unico modo di leggere il film è quello di un gesto liberatorio con un titolo bipenne, da un lato letterale, dall’altro omaggio a Gombrowicz. La trama esile è davvero assimilabile a quella di un porno, se vogliamo a un coming (o cuming) of age, e guardando all’anno di produzione ci si può immaginare un senso di liberi tutti, che qui assume i tratti scostumati di un film molto lasco, ma anche poco interessante.

Discorso diversissimo per Nic śmiesznego (‘niente da ridere’, 1995, su 35mm con sottotitoli inglesi), film col quale Koterski riprende con piena consapevolezza l’epos di Miauczyński… ammazzandolo. Infatti si inizia col cadavere di Adam (Cezary Pazura) sognato da Adam, e la sua voce fuori campo che dice “In vita non m’è mai capitato nulla di divertente” (Nie spotkało mnie w życiu nic śmiesznego). Il resto è flashback, a cominciare dal litigio dei genitori del protagonista sulla scelta del nome: Adam oppure Michał? Un retcon, o semplicemente un gioco autoreferenziale per tirare le fila e scolpire il monumento a JA, cioè ad Adam, che in questo film vive a Łódź, è aspirante regista e ha una famiglia (moglie, figlio e figlia) che lo detesta, tanto da farlo fuori con uno stivale di gomma mentre lui tiene in bocca un peluche rosso. Magnifica sospensione dell’incredulità. La forza di Nic śmiesznego sta nell’imbastire situazioni paradossali che ricordano i film di Stanisław Bareja (noi diremmo: i film di Fantozzi). In questo senso, la struttura episodica di Dzień świra è già molto presente, insieme a una prima analisi critica della vita quotidiana post-socialismo. Va detto che Koterski, autore individualista, non è molto raffinato nel criticare la politica. Alcune sparate di Nic śmiesznego o Dzień świra hanno un chiaro sapore populista, ma è anche vero che la raffica di governicchi degli anni Novanta non aiutò certo a innamorarsi della riconquistata democrazia parlamentare. La forza di questo film è semmai in alcuni momenti, tra Bergman e Fellini, in cui l’infanzia del protagonista prende il sopravvento; nella scena in cui Adam e signora guardano in tv, senza suono, un programma incentrato sulla decorazione pittorica dei piatti (questa, sì, una critica puntuta alla società capitalista rincoglionita dai media); nell’esilarante mise en abyme in cui Adam partecipa alle riprese di un film erotico che ripete, identica, una scena di Życie wewnętrzne (mantenendo persino l’attore Wojciech Wysocki). Con i suoi richiami a Bulgakov e le sue piccole (s)manie trascinate fin dalla tenera età – una per tutte: i denti spazzolati con troppo vigore – Nic śmiesznego si presenta come il riassunto conclusivo dell’era Miauczyński. Adam muore, “No co, żarty się skończyły”. Fine delle barzellette.

E invece no, perché nel 1999 esce Ajlawju, sempre con Cezary Pazura, commedia romantica che dimostra come Koterski non fosse affatto pronto a togliere di mezzo il proprio alter ego. Adam è redivivo, stavolta fa l’insegnante – come in Dzień świra – vive a Łódź e ha un’amante a Wrocław, una vecchia conoscenza rivista dopo anni. Questo non fa di lui un farfallone, semmai un uomo frustrato, con un figlio (Michał Koterski) e una moglie che non lo regge, sempre stesa a leggere sul divano. Le si vedono solo i piedi. La madre di Adam, come in Dom wariatów, ama preparargli una “zupa pomidorowa, dobra” (zuppa di pomodoro, buona). Film non eccezionale, con una stancante musichetta jazz in sottofondo, Ajlawju prende il titolo dalla decisione di Adam di andare qualche settimana a Chicago, sede della più grande diaspora polacca, per studiare l’inglese. La sequenza americana è riuscita, anche se si coglie un sottotesto razzista, di natura sessuale (la stereotipica superiorità del nero) già visto in Życie wewnętrzne, e francamente ingiustificabile. Alcuni monologhi del protagonista, e la consueta graffa di tic e manie, introducono la realizzazione di Dzień świra.

Nel 2006 è la volta di Wszyscy jesteśmy Chrystusami (‘siamo tutti Cristi’), il più ambizioso film di Koterski. Reduce dal successo clamoroso del ‘giorno del maniaco’, lo sceneggiatore e regista idea un affresco in due parti, con due attori diversi (Andrzej Chyra è Adam trentenne, Kondrat Adam cinquantenne) e due macrotemi, cioè la religiosità e l’alcolismo. In realtà il tema religioso non viene approfondito in maniera nuova o interessante: il martirio del protagonista e del figlio non ha nulla di politico, anzi è una metafora ritrita delle sofferenze del popolo polacco. Il vero doppio macrotema, che fa di questo film il primo esperimento seriamente sociologico a firma Koterski, è il binomio alcol-sostanze. Se Adam è un alcolista, suo figlio (sempre Michał Koterski) fa uso di droghe. Entrambi sono alla deriva e si stanno rovinando la vita, ma è proprio nell’asse salvifico padre-figlio che il film trova il proprio punto di forza. Malgrado gli spunti brillanti – uno su tutti: il concretissimo angelo custode che salva regolarmente Adam – Wszyscy jesteśmy Chrystusami è un film drammatico che caccia il dito in una piaga antica della Polonia moderna. La zupa pomodorowa drobra non manca, eppure Adam prova a strangolare la madre, tracanna dello Chanel n.5 per farsi un cicchetto e quando la moglie gli dice di essere incinta, risponde chiedendo l’aborto. Comparsata lampo di Wojciech Wysocki nei panni di un preside, appena in tempo per beccarsi il vomito di Adam alticcio in servizio.

Con Baby są jakieś inne (‘le donne sono in qualche modo diverse’, 2011) Koterski apre una parentesi forse superflua. L’intero film segue due personaggi (Adam Woronowicz e Robert Więckiewicz) senza nome, ufficialmente “primo” e “secondo”, che guidano nella notte. L’unica eccezione quanto a location è una breve pausa all’autogrill esattamente a metà film, con Michał Koterski nei panni di un inserviente dall’acconciatura demenziale. Fin dalla dedica, babom (‘alle femmine’), si capisce dove il film andrà a parare, e infatti son novanta minuti di chiacchiere tra maschi, spesso rasenti il delirio da spogliatoio. L’impostazione teatrale è drammaticamente evidente, così come il sospetto che i due siano in realtà uno (Adam, chi sennò?) che parla tra sé e sé, cioè tra la propria metà emotiva (Woronowicz) e quella cinica (Więckiewicz). Sul finale il film diventa un po’ più film con l’apparizione di Małgorzata Bogdańska, che rifiuta un passaggio sbadigliando e parla direttamente a noi del pubblico. Una visione per completisti.

7 uczuć (‘sette sentimenti’, 2018) è finora il nono e ultimo film koterskiano. È anche quello in cui gli omaggi a Gombrowicz e Fellini sono più evidenti. In particolare il Gombrowicz di Ferdydurke (1937) e il concetto di upupianie, la riduzione del mondo a esperienza anale e puerile. Come Nic śmiesznego, anche questo racconto è interamente in flashback. All’inizio vediamo Adam – finalmente interpretato Michał Koterski – parlare con uno psicoanalista, dopodiché ci tuffiamo nel passato… e davanti alla macchina da presa c’è sempre lui, Michał Koterski, insieme al fratellino maggiore Miki (Robert Więckiewicz). L’idea del film, a dire il vero non stratosferica, è quella di far interpretare i bambini da degli adulti. Tant’è che la classe del piccolo Adam ha insegnanti, e genitori – con tanto di madre perennemente impegnata a cuocere una zupa pomidorowa dobra – interpretati da attori più giovani di quelli che vestono panni infantili. Una volta capito l’andazzo il film non ha molto da offrire, ma sul finale sterza e diventa una riflessione filosofica sulla sopravvivenza e la necessità di dare ascolto ai bambini.

Incostante ma sempre sincero, maestro della ripetizione maniacale e della risata a denti digrignati, Marek Koterski è un nome ingiustamente ignorato fuori dai confini polacchi. Prima di tuffarsi negli abissi di film come Dom wariatów, Życie wewnętrzne o Nic śmiesznego, conviene almeno guardare Dzień świra, manifesto perfetto del koterskismo e dimostrazione che il cinema d’autore, intinto di commedia, ha una storia anche a cavallo della cortina di ferro. Trovo tuttora incredibile, e di una bellezza abbacinante, che il film del 2002 si concluda citando, in polacco, questo brano di Antoine de Saint-Exupéry: “Vieux bureaucrate, mon camarade ici présent, nul jamais ne t’a fait évader et tu n’en es point responsable. Tu as construit ta paix à force d’aveugler de ciment, comme le font les termites, toutes les échappées vers la lumière. Tu t’es roulé en boule dans ta sécurité bourgeoise, tes routines, les rites étouffants de ta vie provinciale, tu as élevé cet humble rempart contre les vents et les marées et les étoiles. Tu ne veux point t’inquiéter des grands problèmes, tu as eu bien assez de mal à oublier ta condition d’homme. Tu n’es point l’habitant d’une planète errante, tu ne te poses point de questions sans réponse : tu es un petit bourgeois de Toulouse. Nul ne t’a saisi par les épaules quand il était temps encore. Maintenant, la glaise dont tu es formé a séché, et s’est durcie, et nul en toi ne saurait désormais réveiller le musicien endormi ou le poète, ou l’astronome qui peut-être t’habitait d’abord“.

Firma di Adaś Miauczyński, da Ajlawju (1999).

viva la Vistola

Stanisław Tym e Leszek Kowalewski in Rejs (1970) di Marek Piwowski

Caldo bestia? Poca voglia di pensare alla graduale scomparsa di mestieri come la traduzione editoriale? Ebbene, ecco l’antidoto a malinconie e policrisi: la commedia polacca più riuscita di tutti i tempi. Si chiama Rejs, è stata girata nel 1969 e a rivederla oggi è ancora più fresca e moderna di quando uscì (a malapena). Il link al portale gratuito 35mm restituisce una copia impeccabile con sottotitoli inglesi e polacchi.

La storia di Rejs (pron. réis), che in polacco significa crociera, è quella di una svolta epocale nel cinema della repubblica popolare, realizzata con mezzi minimi e nella forma di un film di appena sessantasei minuti. Il regista Marek Piwowski scrisse insieme a Janusz Głowacki una prima sceneggiatura che aveva l’obiettivo di tranquillizzare le autorità. Le riprese si svolsero sulla Vistola, partendo da Toruń, e assunsero immediatamente un carattere di improvvisazione. Nel film appaiono una ventina di personaggi, tra la ciurma, i villeggianti e due clandestini, e a interpretarli è un cocktail micidiale di attori professionisti e non, trainati dal genio di Stanisław Tym. Reduce da uno spettacolo teatrale a Varsavia intitolato Kochany panie Ionesco (Carissimo signor Ionesco), Tym aveva già avuto qualche particina con Skolimowski, e incarnava una cultura riottosa e nonsense poco integrabile nel tessuto del socialismo. Al tempo, il segretario del partito era ancora il controverso Władysław Gomułka. Tym, Głowacki e Piwowski ebbero l’intuizione di parodiare, per la prima volta sul grande schermo, i birignao linguistici e culturali del socialismo col pugno di ferro.

La trama è esile e facilmente rintracciabile on line. Girato in stile semidocumentaristico, con una frontalità e un accatastamento degli episodi in pieno stile sit-com, Rejs può dare l’impressione di un film esangue, poco estroso, sicuramente estraneo alle zampate di un Wajda o al rigore intellettualistico di un Zanussi. L’unità di luogo, sul piroscafo Neptun, ricorda vagamente l’esordio di Polański nel 1961 con Nóż w wodzie, ma il paragone non regge sul piano dei movimenti di macchina e del trappolone psicologico. Piwowski è sicuramente un nome di secondo piano della cinematografia polacca, ricordato solo per Rejs e forse ostacolato nella carriera successiva dalla fama sovversiva di questa bomba a mano piazzata all’inizio degli anni Settanta. Persino Kieślowski, prima di conquistare il pubblico internazionale, è sempre stato molto attento ai filtri censori, e lo si vede persino in un capolavoro come Amator (1978), che si presenta più come un film sull’ossessione per il cinema che come un’opera apertamente critica del regime. E dire che già tra il 1970 e il 1978 si era creato un abisso sociopolitico, per via di un fattore in crescita esponenziale chiamato Solidarność. Il cosiddetto kino moralneo niepokoju (cinema dell’inquietudine morale) ben rappresentato dai drammi realistici di Wajda, Zanussi e Kieślowski, poteva contare su cambiamenti tangibili oltre che sulla presenza nei grandi festival. Rejs, commedia scombiccherata, funse da grimaldello e restò esempio isolato per alcuni anni, senza peraltro godere del sostegno “forestiero”.

Oggi, Rejs è considerato un classico. Nel corso dei decenni il film ha circolato anche al di fuori della Polonia, paese in cui uscì in due copie col crudele stampino di “film di quarta classe”. È tuttavia già miracoloso che poté uscire in qualche cinema, e che la komisja kolaudacyina (cioè la censura) non lo abbia fatto a pezzi. I sessantasei minuti di durata non sono infatti riconducibili alle forbici censorie, bensì alla decisione di Piwowski di concentrare al massimo il potenziale umoristico del film. A riprese ultimate, il materiale consentì due versioni provvisorie di tre ore e un’ora e mezza, ma gli autori preferirono snellire il prodotto finale, che ora funziona come uno stiletto. E non per via di “nessi di ferro” e concatenazione logica. Il film è davvero episodico, improvvisato, a tratti dada, quindi in linea di principio ci sono ancora delle scene sacrificabili. Ma l’equilibrio che lo rende così solido è proprio dovuto un bilanciamento misterioso, ipnotico, di lunghe sequenze e inserti lampo, cabaret filmato e smorfie da film muto. Da questo punto di vista è impossibile migliorare il montaggio definitivo, già “director’s cut” nel 1970.

L’arma letale di Rejs è la parodia. Più circo volante che nave dei folli, il film di Piwowski mette in campo due strategie sorprendenti se si pensa all’epoca delle riprese. La prima è la parodia della cosiddetta nowomowa, la “neolingua” della propaganda socialista già smembrata da Orwell, ma comunque utilizzata con programmatica pervicacia nei paesi del blocco sovietico. Oggi la chiameremmo politichese. In fin dei conti, ogni epoca ha la sua lingua del confronto pubblico, i suoi cliché da campagna elettorale. In Polonia i discorsi di Gomułka & co. erano meticolosamente codificati, e in Rejs questo codice riaffiora nei monologhi senza senso dei protagonisti, dal capitano (Ryszard Pietruski) che fa un colloquio di lavoro al clandestino Tym trasformandolo nel nuovo kaowiec (responsabile delle attività culturali) al filosofo sculacciato (Andrzej Dobosz) passando per un poeta dislessico (Leszek Kowalewski), un azzeccagarbugli di partito (A. Sobczyk) e un cinico ingegnere (Zdzisław Maklakiewicz). Già la voce off della primissima scena, che tramite megafono informa sui rischi della balneazione, sfoggia la cadenza impassibile e il vocabolario astruso di questa non-lingua autoritaria e inevitabilmente ridicola. Se alcuni film degli anni Cinquanta, espressione coatta del realismo socialista, potevano risultare involontariamente buffi, con Rejs si passa alla parodia, appena camuffata da adattamento di gruppo dei romanzi di Jerome K. Jerome. Un aspetto ben analizzato da Karolina Dabert.

La seconda strategia è metanarrativa. Al tredicesimo minuto scatta una lunga sequenza immobile in cui l’ingegnere Mamoń critica aspramente il cinema polacco, asserendo che nei film nazionali non succede niente. Inutile dire che nel farlo, tra una pausa e l’altra, interpreta plasticamente quello che dice, davanti agli sguardi vuoti degli astanti. Anche le due sequenze più importanti del film, l’assemblea (subito dopo) e la festa del capitano nel prefinale, contengono interventi “fatici” che uniscono l’uso della nowomowa a zero ricadute pratiche. Il malinconico cantante interpretato da Janusz Kłosiński rompe così il ghiaccio al minuto 19: “Na każdym zebraniu jest taka sytuacja, że ktoś musi zacząć pierwszy” (in ogni assemblea arriva il momento in cui qualcuno deve iniziare per primo). Gli ultimi minuti del film, che sconfinano nell’allegoria, fanno culminare questa crociera decerebrata in una festa con coreografie alla meno peggio e quiz sui versi degli animali. La messa in abisso della repubblica popolare polacca diventa un gorgo tragicomico.

Come ha notato Krzysztof Obremski, lo spirito sovversivo Rejs funse da spunto a un altro regista, Stanisław Bareja, che nel corso degli anni Settanta realizzò una serie di commedie grottesche con frecciate politiche tra le righe. Insieme a Tym in veste di sceneggiatore e protagonista, Bareja è autore di Miś (‘orsetto’), film uscito nel 1981 pochi mesi prima dell’introduzione della legge marziale. Anch’esso amatissimo dal pubblico, questo film sgangherato ha avuto persino due sequel, Rozmowy kontrolowane (‘conversazioni controllate’, 1991) di Sylwester Chęciński, scritto da Tym, e Ryś (‘lince’, 2007), sceneggiato, diretto e interpretato dall’attore. La mano di Bareja è greve, anche se alcuni momenti di Miś sono davvero azzeccati e sembrano farina del sacco di Paolo Villaggio, come la latteria – tipico locale polacco dove mangiare per poco – coi piatti inchiodati ai tavoli e le posate (per due) incatenate. Quanto a Tym, conosciuto anche come opinionista sulle pagine della Gazeta Wyborcza, i suoi film si accompagnano sempre più a rilievi cinici, o semplicemente populisti, sull’attualità politica polacca. Se Miś rappresenta un documento storico sull’atmosfera che portò alla mossa dittatoriale di Jaruzelski, Rozmowy kontrolowane, prodotto in un clima finalmente scevro da rischi censori, si limita a cannibalizzare l’epoca della legge marziale con toni da commedia scollacciata, peraltro invecchiata male. Si salva solo il finale, nichilista sì ma con spirito monello.

Rejs è caso isolato nel cinema polacco. Commentato con ironia dalla colonna sonora di Wojciech Kilar, il film sbertuccia un’intera classe politica con naturale eleganza e una metafora quasi ancestrale, quella dell’imbarcazione alla deriva. E la barchetta va. Il senso di imbarazzo suscitato da alcune scene, la recitazione beckettiana, l’assurdità vibrante dei dialoghi fanno di Rejs un film modernissimo, comprensibile anche senza conoscerne lo sfondo socioculturale. Durante il quiz finale, a un anziano viene chiesto di fare il verso del cavallo, lui azzarda un “patataj, patataj“, che è come dire cloppete cloppete, l’intellettuale integrato lo corregge con un nitrito che sembra un raglio e il vecchio sbotta: “Pytania są tendencyine”. Le domande sono tendenziose.