Il Secondo Libro di Elia

Le mani di mio figlio giuocano con un arcobaleno a quattro ruote motrici.

Un mese col dottor Koala, detto anche Il Fantolino, detto anche Bimbogrì, detto anche Pupo Avati, detto anche Pucci Patati, detto anche [un nuovo soprannome ogni sessanta minuti]. Maggio sembra già il Pleistocene, eppure il senso del tempo si contrae come una fisarmonica, tra la corsa all’impazzata e il moviolone condito di fermi immagine. Sembra la versione live action dell’Evoluzione creatrice. Henri, com’era pure la faccenda della durata? Le giornate sono compresse come non mai, ventiquattr’ore non sono niente, spesso son già vispo alle 6 attaccato alla tastiera mentre la casa dorme – per poi collassare miseramente dopo aver lavato i piatti, tra le 21 e le 22. Eppure c’è qualcosa che riattiva la concentrazione appena Elia s’addormenta durante il giorno, qualcosa che trasforma il braccio destro in un accessorio cyborg quando va trasportato per lunghi tragitti, anche solo un cerchio casalingo da ora d’aria galeotta in attesa che torni la quiete. Come la mettiamo, Henri? Che cos’è questa cosa, slancio filiale? Un nuovo bosone? Nel mio caso un busone?

L’inizio di giugno è stato un’ordalia. Meteo prussiano pazzo, temperature invernali, paesaggi padani. Elia si prende il raffreddore, muco a fiumi, il nasino s’intasa, la pompetta rimediata in farmacia è un bluff clamoroso. Non ci resta che risucchiare il blob verdastro in prima persona. Bimbo in ripresa dopo tre giorni. Dopodiché il papà (Yassien) resta in stato confusionale mezza giornata e alla fine tocca al babbo, steso per una settimana con sinusite galoppante e apnee da febbre a trentotto e otto. Col mal di testa da concentrazione di catarro non c’è sumatriptan che tenga, così per quattro giorni di fila ho percepito il mondo col filtro di un’emicrania itinerante che andava pulsando lungo la superficie del cranio. Ma: tutto è bene quel che finisce bene.

Nostro figlio si addormenta al suono di Music for Airports. I bambini amano la routine, strutture solide e ripetitive, e i babbi autistici no? E allora routine sia. Dopo l’ultimo biberon appicciamo spotify, un gran cullare in attesa del rigurgitino, un girellare, ancora un cullare ma col bimbo orizzontale, pregando che gli occhietti si chiudano. Se lo fanno nel corso della prima traccia, e restano chiusi al momento di posarlo nel lettino, è grande gioia. O giubilo, o design intelligente! Capita che le tracce si avvicendino mentre Elia si prilla nel lettino, borbotta una conferenza osservando le dita del babbo o prende in esame il ciuccio con occhio clinico. Se l’album finisce, si spalancano le cancellate ai confini della realtà. Ma: prima o poi, garantito, s’addormenta. Il babbo segue a ruota.

Cosa garba a Dj Elia? Una cosa è addormentarsi, ma ballare in braccio ai babbi? Allora ci vuole un pezzo sbarazzino come Yekserni degli Adonis. O Buon viaggio di Cesare Cremonini. Oppure Don’t Look Back in Anger, che son quasi trent’anni che fa piangere il babbo, maledetto Noel grezzone di Manchester! Ma che t’è venuto in mente negli anni Novanta? Sarà meglio richiederglielo tra una dozzina d’anni, ma ho l’impressione che Don’t Look Back in Anger garbi anche a Elia, in fin dei conti è musica classica. Non da pennica come Eno e Debussy, ma da pre-pennica sì, ultimi fuochi del giorno prima del biberon pieno di latte che potrebbe benissimo essere camomilla.

Quando fa i suoi concerti di pernacchie buffe, quando parte con vocalizzi di “grì”, “bè-bè” o erre crucco-arabe fantasticamente irripetibili da bocche italiane, Elia sfodera delle espressioni facciali che ci lasciano allibiti. Per un millisecondo, un colpo di manina, un sopracciglio, un balenar di pupilla, sembra un adulto. Da chi l’ha imparato, da quale iperuranio l’ha pescato, sono le domande sbagliate che mi faccio. Perché è la dicotomia adulto-bambino a non sussistere. C’è solo un imparare collettivo, un entanglement orizzontale, rizomatico, senza gerarchia. Elia m’insegnerà a gattonare. Io, forse, gli darò qualche spunto per pernacchie ancora più sceme.