
A un certo punto della zumata chiedo all’assistente sociale se si tratta di uno strano, perverso pesce d’aprile. È il primo giorno del secondo quartale dell’anno duemilaventicinque e la signora riccia, che conosciamo da due anni, ci ha appena fatto l’identikit di nostro figlio. Un bozzetto, niente più. Poche linee con una testolina sorridente. Io resto senza parole, in Yassien vedo scattare l’interruttore sull’ON. “Ci sarebbe un altro bambino”, ci aveva detto pochi minuti prima, chiedendoci se volevamo continuare la conversazione. Noi avevamo acconsentito con un misto di fastidio ed esaurimento. Terzo tentativo, quando pensavamo che la chiacchierata on line fosse per discutere i motivi del secondo buco nell’acqua. Di questi buchi, più cardiaci che fluidi, non ha più senso parlare. Il primo, straziante, nell’agosto del 2024. Il secondo, una sorta di falsa partenza che ci ha lasciato a fine marzo con più rabbia che desolazione. Tutto questo ora non conta più. Prendiamo nota di quelle poche info così promettenti, ringraziamo trattenendo un grido di gioia, ci aspetta una notte per pensarci. Ma al contrario dell’estate scorsa, quando il nostro no fu un calvario di giorni interi con strascico di carta vetrata, molliamo il computer e cominciamo a saltellare per casa. Io mi metto alla svelta in tenuta da jogging, plano giù per le scale e la terza canzone che mi parte nell’ipod – un gingillo discontinuato – è The Suburbs degli Arcade Fire, che a un certo punto fa “So can you understand / Why I want a daughter while I’m still young? / I want to hold her hand / And show her some beauty / Before this damage is done / But if it’s too much to ask / If it’s too much to ask / Then send me a son”.
Lo sto dicendo spesso ai miei amici in questi giorni, e non è un’iperbole. Da quell’altro giorno di aprile, il giorno in cui abbiamo visto nostro figlio per la prima volta, la consapevolezza luminosa del miracolo mi ha fatto quasi tornare credente. Giovane non lo sono più, ho quarantott’anni quasi quarantanove. Nei questionari che abbiamo compilato in questi cinque anni di rincorsa burocratica, sotto “genere” non abbiamo mai indicato una preferenza, ma a voce sì: una figlia volevamo, prima una figlia adottiva, poi una figlia affidataria. E invece un figlio c’è arrivato, a sorpresa e bello come il sole, un figlio. Prima di vedere la sua mano destra spuntare dal passeggino avevo quelle sei lettere tatuate nel cervello, e ancora lì sono, che producono orgoglio buono, gioia stellare e una serenità mai provata prima.
Yassien e io ci siamo sposati nel 2019, a due anni dalla promulgazione della Ehe für alle. Dopo quasi un anno abbiamo inviato la nostra prima mail per avviare il percorso dell’adozione interna alla Germania, modalità laica. Insomma, ci siamo rivolti al comune. Nel 2022, in uno stanzino buio individuabile solo grazie a una sfilza di numeri, a cui si arriva dopo chilometri di corridoi, ci hanno detto che avremmo potuto restare nella lista d’attesa, a causa della mia età non c’era alcuna possibilità concreta di farcela. Sproporzione tra coppie candidate e bimbi adottabili. Non che nel 2020 la mia data di nascita fosse diversa. Ma questo ci disse, una delle funzionarie che durante il covid non hanno il permesso di leggere le mail da casa. Ci consigliò la via dell’affido, con statistiche inverse (più bimbi che potenziali genitori), ci congedammo, chiudemmo il tema come fosse una feritaccia da taglio, cioè con una grossa cicatrice – cosa che in questi anni, per autodifesa, abbiamo fatto un bel numero di volte. Avanti, e felicemente, saremmo comunque andati. Ora però avanti con figlio.
Bastò l’atmosfera negli uffici del Träger di quartiere a cui ci rivolgemmo, per farci capire che valeva la pena tentare. Pieno Kreuzberg 36, pareti arancioni e giocattoli in ogni dove. Il grigiore socialista mi piace assai, ma non quando si parla di allargare la famiglia. Quindi il salto di qualità umana rispetto allo stanzino incistato nei corridoi ci fece subito riaprire la ferita, in senso buono, trasformandola in un accogliente fiore di carne in stile Cronenberg. E questo è l’unico riferimento filmico, peraltro stridente, che infilerò in questo diario dell’affido. Ricominciammo da capo. Nuova legge, nuove regole, analoghe storie dell’orrore (FAS, droghe, violenze, abbandoni), ma un maggiore senso di concretezza e un identico obiettivo: la quotidianità in tre. Dopo mesi di formazione e incartamenti il comune ci mandò una lettera contenente uno spadone. Che appoggiato di piatto sulle nostre spalle ci rese eleggibili come genitori affidatari. E ora lo siamo, al terzo tentativo. Un lampo inatteso che ci ha portato Elia.
Il 9 aprile, nel pomeriggio, incontriamo la madre affidataria provvisoria in un parco pubblico. Spinge un passeggino, sorride forte di un’esperienza trentennale con bambini acchiappati al volo dalla rete sociale. La salutiamo, abbassiamo la testa. Lo vediamo. È lui. هو. Di lì a poco comincio a singhiozzare. Nella prima foto che ci ritrae tutti e tre, scattata dall’assistente sociale maschio reduce dalla pausa sigaretta, Yassien lo tiene in grembo con sicurezza, Elia gli stringe l’indice della destra con la sinistra, io gli afferro un piedino. Il pupo guarda l’obiettivo tra l’imbronciato e il filosofico. Guance che pagano l’IMU e una dozzina di grandi domande esistenziali nella pipeline della testa.
Da quel momento ci siamo messi in moto a pieno regime, ogni giorno un piccolo passo verso una direzione ormai limpida. A volte molti passi, una maratona. Come nel periodo di acclimatamento di dieci giorni che ha condotto al trasloco definitivo in casa Aglan-Buttazzi. Ora venderò casa, giocando un jolly cresciuto in diciassette anni di gentrificazione, normalizzazione prussiana e inflazione dadaista. Andremo in un appartamento più grande, in un altro quartiere, con una botola che porta in cantina – materia prima per paure e avventure. L’ES in casa. Abbandoneremo il caldo Plattenbau eretto agli albori del disgelo. Caldo perché, dal 2008, le volte in cui ho dovuto accendere il riscaldamento si contano sulle dita della mano. Ultimo semestre all’università. Poi cercherò un lavoro full-time, in biblioteca. Sempre che i committenti degli ingaggi di traduzione non si rendano conto, oplà, che di amanuensi hanno bisogno, non di sputi algoritmici, e che gli amanuensi vanno pagati come tali per un lavoro svolto con amore dall’inizio alla fine. Ci siamo messi in moto a pieno regime, no-nonsense, no frills, ohne Firlefanz. Un figlio è un giacimento di carburante.
Conosciamo nostro figlio da meno di due mesi. Da appena due settimane lo vediamo tutti i giorni. Non dimenticherò mai il senso di approdo che avvertii indossando per la prima volta una Trage (si dice marsupio?) con mio figlio infilato dentro, strettammè, la faccia appena sotto la mia. Faccia che ogni tanto, quando non dormiva come un sasso anche su una metropolitana strapiena, alzava guardandomi dritto negli occhi con uno dei suoi quesiti presocratici. Occhi come laghi nella sera. Abbiamo imparato che una palla gonfiabile da ginnastica è fondamentale per incoraggiare il Bäuerchen (ruttino/vomitino), e a volte riesce persino a spedire il pupo nel mondo dei sogni. Il rumore quasi meccanico, da ingranaggio fine, che fa il biberon in piena poppata è diventato la mia Nona di Beethoven. Ho poi il sospetto che Elia, nostro figlio, abbia un umorismo sghembo potenzialmente devastante. Altrimenti non si spiegano le ore che passiamo a conversare a colpi di pernacchie e altre dodecacofonie. Questo è il nuovo grottesco vigente i cui spaccati trovano spazio qui, in coda alle mie orecchie ossessive. Non ho più occhi che per gli occhi di Elia. Non ho più orecchie che per la sua voce, che un bel giorno, a Yassien e a me, dirà: Babbo.

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